IL TRAGUARDO DI OBAMA

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E qualora sfociasse entro il 2014 in un’intesa complessiva che risolvesse una volta per tutte la disputa sul programma nucleare di Teheran, le equazioni strategiche mediorientali ne sarebbero stravolte. Paradossalmente, a questo punto anche il fallimento dei negoziati avrebbe conseguenze formidabili: anzitutto, la disfatta di Obama, che in questa partita si è alquanto esposto, e il ritorno di fiamma a Teheran dei “falchi”, che mal sopportano la disponibilità del nuovo governo iraniano verso il “Grande Satana”.
L’estrema importanza della posta in gioco spiega la maratona diplomatica, segnata dalle resistenze emerse a Ginevra soprattutto da parte della Francia, che stanno contribuendo ad allungare i tempi della trattativa. Su ogni dossier possibile – dalla Siria al Libano e al nucleare – Parigi si è profilata come l’attore meno sensibile alle sirene persiane. Mentre gioca al “poliziotto cattivo”, Hollande espone ancor più Obama nelle vesti di “
goodcop”.
È dal 2009 che il presidente americano bussa alla porta di Teheran e ora che sulla soglia incontra finalmente un complice sorriso, non intende mollare la presa.
Certificando la riabilitazione dell’Iran con la benedizione
statunitense, l’accordo sul nucleare segnerebbe la sconfitta della strana coppia Arabia Saudita- Israele. Due storici alleati di Washington, che hanno giocato tutte le carte sull’isolamento dell’Iran e per questo si stanno autoisolando. Al di là dell’esito dei negoziati in corso, di cui Ginevra è solo una tappa, Riyad e Gerusalemme sono di fronte a un dilemma: smentire se stesse e inghiottire l’amaro boccone della graduale “normalizzazione” della Repubblica Islamica, oppure sabotare il compromesso Iran-resto del mondo. Con ogni mezzo. Le rabbiose reazioni dei leader sauditi e israeliani alle aperture americane al nuovo corso iraniano indicano che ad oggi la scelta è per l’ostruzionismo. Costi quel che costi.
I sauditi hanno fatto sapere a Obama che d’ora in poi rivedranno la propria geopolitica energetica e di sicurezza. Ossia le basi stesse del patto segreto stipulato il 14 febbraio 1945 da Roosevelt con il fondatore della dinastia saudita, Abd al-aziz al-Saud: petrolio saudita contro protezione militare americana. Di più, hanno avvertito che sono pronti a ottenere dall’amico Pakistan il trasferimento sul proprio suolo di alcune testate atomiche, scatenando la corsa al nucleare in tutto il mondo arabo e islamico.
Quanto agli israeliani, Netanyahu si è sfogato in pubblico contro il «cattivo accordo», che «dà all’Iran tutto quel che vuole in cambio di nulla». Il suo ministro dell’Economia, Bennett, ha trovato accenti apocalittici: «Fra qualche anno, quando un terrorista islamico si farà saltare con la sua valigetta atomica a New York, o quando l’Iran lancerà un missile nucleare
su Roma o Tel Aviv, ciò sarà accaduto solo perché un cattivo accordo sarà stato stipulato in questi momenti decisivi». Israele si riserva il diritto di attaccare l’Iran quando lo ritenesse necessario.
Il fuoco di sbarramento della strana coppia saudito- israeliana si spiega con il timore che lo sdoganamento di Teheran colpisca i rispettivi interessi vitali, che convergono nel combattere il veleno persiano. Più che un Iran atomico, destinato ad essere vetrificato da un attacco preventivo americano/israeliano ben prima di poter installare una testata atomica su un qualsiasi vettore, Riyad e Gerusalemme temono il ritorno della Persia come grande potenza regionale. Una volta emancipato dalle sanzioni e riammesso a pieno titolo nei circuiti geopolitici ed energetici internazionali, l’Iran potrebbe torreggiare sul Golfo e sull’Asia occidentale, tra Mediterraneo, Caspio e Oceano Indiano. Riscoprendo la plurimillenaria vocazione imperiale, cui non ha mai abdicato.
Né le minacce saudite né quelle israeliane sembrano per ora smuovere Obama. Quanto alle pressioni di Riyad, alla Casa Bianca non ne sono troppo impressionati. Inebriati dal tesoro domestico degli idrocarburi non convenzionali, cui stanno attingendo a rotta di collo, gli americani sentono avvicinarsi il traguardo dell’indipendenza energetica. Rifiutandosi di intervenire contro al-Assad in Siria, poi, Obama ha comunicato ai sauditi di non volersi dissanguare per la loro guerra, ovvero per portare i jihadisti a Damasco.
L’ira di Netanyahu viene presa invece molto sul serio
alla Casa Bianca. Il rapporto Washington-Gerusalemme investe identità e valori americani, non solo contingenze strategiche. Sul piano tattico, Obama sa che l’influenza della lobby israeliana al Congresso potrebbe bloccare l’accordo con l’Iran. Lo sprint diplomatico di queste settimane, avviato il 27 settembre con la telefonata tra Obama e il presidente Rohani, mira anche a prevenire un nuovo giro di sanzioni anti-iraniane che alcuni parlamentari americani vorrebbero approvare al più presto.
Colpisce che nella fase decisiva del confronto fra Teheran e le maggiori potenze l’Italia non possa far sentire direttamente la sua voce. Eppure in questi mesi la diplomazia di Roma ha tessuto un filo non secondario nelle trattative segrete con la Repubblica Islamica. Il recente incontro tra Letta e Rohani è stato assai cordiale. A suo tempo, Berlusconi lasciò cadere l’offerta iraniana di inserire il nostro paese nel drappello dei Grandi abilitati a negoziare il dossier atomico. A proteggere i nostri notevoli interessi di sicurezza (si pensi solo ai contingenti in Libano e in Afghanistan) ed energetici (l’Eni ha avuto un ruolo storico in Iran) dovrebbero provvedere tedeschi, francesi e inglesi, in nome della solidarietà europea? Forse siamo ancora in tempo per profilarci in questa partita. Magari anticipando i nostri amici/concorrenti europei che si preparano a sbarcare a Teheran per conquistare un posto di prima fila in quell’Eldorado energetico proibito che presto potrebbe riaprirsi al mondo.


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