La lotta di classe in aiuto dell’eurozona

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La stampa conservatrice tedesca reagisce stizzosa alle accuse di Washington per l’eccesso di surplus della bilancia commerciale di Berlino e alla pretesa della Commissione europea di mettere sotto inchiesta questo stesso fenomeno. Eppure è sotto gli occhi di tutti lo squilibrio che la competitività tedesca ha introdotto nell’eurozona dove la moneta unica impedisce ai paesi più deboli di difendere il proprio export con il consueto strumento della svalutazione e dove le imposizioni delle politiche di austerità precludono ogni rafforzamento del mercato interno senza peraltro riuscire a ridurre il debito pubblico.

Nel frattempo i risparmiatori tedeschi strepitano contro l’erosione delle proprie rendite finanziarie, prendendosela con la Bce che abbassa il costo del denaro, proprio nel tentativo di correggere lo squilibrio generato dai dogmi economici di Berlino. E i «saggi» (disgraziatamente ognuno ha i suoi), che siedono nell’organismo consultivo del governo federale per l’economia, bocciano l’introduzione di quel salario minimo di 8,50 euro orari che figura tra i punti più controversi della trattativa tra Spd e Cdu/Csu per la formazione di una Grande coalizione. Correrebbe il rischio di «aumentare la disoccupazione». È ovvio che nessuno potrebbe imporre una qualche forma di astinenza all’export tedesco, di cui gli opinionisti liberali vanno strepitando, se non usscendo dall’alveo del «libero mercato».

Quel che gli Stati uniti e l’Europa pretenderebbero dalla Germania è invece un rafforzamento del mercato interno e dunque un incremento delle importazioni. A questo punto converrà fare ricorso a un piccolo, elementare esercizio di critica dell’economia politica. La competitività tedesca è stata prodotta da un contenimento dei salari e da un ridimensionamento dello stato sociale. Con la parola d’ordine di aggredire la cosìddetta «disoccupazione volontaria» la Spd del cancelliere Schroeder istituì un mercato del lavoro di infimo ordine sul quale i beneficiari del sussidio di disoccupazione sarebbero stati costretti a vendersi. Nello stesso tempo sindacati e imprenditori concordavano una dinamica salariale addomesticata e decisamente modesta. I margini di profitto così ottenuti dal contenimento del costo del lavoro consentivano di investire in tecnologia e innovazione e di aumentare quindi la produttività del lavoro, riducendone ulteriormente il costo.

Marx avrebbe detto che il risparmio di capitale variabile (il lavoro vivo) si trasformava in capitale costante (impianti). In conseguenza le merci tedesche sarebbero diventate ancora più competitive. Come dimostra il punto di vista dei «saggi», i capitalisti tedeschi non hanno alcuna intenzione di attivare una dinamica salariale, la cui assenza ha garantito loro enormi profitti e posizioni di mercato. Neanche se a chiederglielo è il «capitale complessivo» e cioè l’Fmi, gli Usa e i paesi europei usciti con le ossa rotte dalla competizione. Il modello tedesco ( e non solo quello ) si fonda precisamente sul fatto che il successo economico non deve tradursi in maggiore spesa dei cittadini e dunque in un elevamento del tenore di vita, ma nel rilancio dell’accumulazione su tutti i piani possibili. I tedeschi sono stati costretti a vivere «al di sotto dei propri mezzi».

La Germania, del resto, non fa eccezione al generale processo di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e di protezione ad ogni costo della rendita finanziaria. Pensare di poter chiedere una mano al proprio concorrente è dal punto di vista del capitalista, una amenità. Pensare poi di chiederglielo rinunciando a parte del suo potere di ricatto e di controllo sulla forza lavoro e sullo sfruttamento della cooperazione sociale è addirittura una aberrazione. In bocca ai tecnocrati di Bruxelles la parola solidarietà suona come una moneta falsa. L’impasse europea consiste essenzialmente nel fatto di ricercare un equilibrio basandosi su una dottrina economica fondata sullo squilibrio. Illusione condivisa dal negoziato permanente tra stati sovrani di diverso peso che caratterizza oggi la vita stentata dell’Unione.

È difficile immaginare una Commissione europea che reclami la ripresa della lotta di classe in Germania. Eppure solo una forte pressione sociale da parte dei lavoratori tedeschi, dei precari ultrasfruttati e di una cittadinanza cui vengono progressivamente sottratti pezzi di stato sociale potrebbe conseguire quell’ incremento del mercato interno nella Repubblica federale che l’Europa e gli Usa desiderano. Indirettamente, le critiche che mezzo mondo rivolge al capitale tedesco e alla sovranità che lo sostiene al tavolo del negoziato europeo, potrebbero indurre i cittadini tedeschi a pretendere finalmente quella vita «all’altezza dei propri mezzi» che il processo di accumulazione e il gigantesco apparato ideologico che lo accompagna ha loro sottratto fino ad oggi.

Come sempre, l’alternativa è quel nazionalismo che, negando o soffocando le linee di frattura e i conflitti che attraversano la società, rivolge all’esterno la propria aggressività. Che si serva dei Panzer o del surplus commerciale. Coraggio compagno Schulz chiami il suo paese alla lotta di classe!


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