L’America vola con i posti di lavoro l’Europa arranca, Francia declassata

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NEW YORK- I DUE mondi divergono sempre di più: la Francia subisce lo smacco del downgrading, in America è boom per l’occupazione.

IERI la divaricazione tra le due sponde dell’Atlantico è apparsa più ampia che mai. Standard & Poor’s ha inflitto un’umiliazione a François Hollande, abbassando di un grado il rating sovrano della Francia, che scivola da AA+ alla semplice doppia A. L’affidabilità delle agenzie di rating è sotto accusa almeno dai tempi della crisi dei mutui subprime, e dunque il ministro delle Finanze di Parigi, Pierre Moscovici, ha reagito duramente definendo «imprecisa» l’analisi di S&P. Per quanto altamente controversi, non si può accusare questi giudizi di essere influenzati da preferenze politiche: infatti S&P aveva riservato un trattamento identico a Nicolas Sarkozy che perse la tripla A nel gennaio 2012 a pochi mesi dalla sua disfatta elettorale. Del resto il downgrading si aggiunge ad altre notizie ben più preoccupanti: la disoccupazione record che in Francia colpisce 3,3 milioni di persone; la fiducia verso il presidente Hollande crollata ai minimi; infine un’ondata di proteste contro le tasse che coinvolge le più diverse categorie, dagli agricoltori bretoni ai calciatori. Il giudizio di S&P del resto non guarda tanto ai saldi finanziari quanto all’economia reale: ciò che preoccupa è la capacità di crescita, in sua assenza lo stesso debito pubblico è ancora più oneroso e difficile da ripagare. Sempre ieri la produzione industriale francese ha subìto una nuova battuta d’arresto, meno 0,5% in un mese.
All’estremo opposto c’è la situazione americana. Nel mese di ottobre il mercato del lavoro Usa ha visto la creazione di 204.000 posti aggiuntivi netti (è il saldo positivo tra assunzioni e licenziamenti). Il risultato ha sorpreso, è stato molto migliore delle aspettative. Soprattutto perché ottobre era il mese dello «shutdown», la serrata di Stato provocata dal braccio di ferro tra Casa Bianca e Congresso sulla legge di bilancio. Molte agenzie federali avevano dovuto lasciare a casa i dipendenti senza stipendio, quindi una parte di quegli statali erano finiti almeno statisticamente nelle liste dei disoccupati (anche se in realtà, finito lo shutdown, a novembre i 450.000 dipendenti coinvolti hanno ritrovato impiego e stipendio, sia pure decurtato di alcune settimane non remunerate). In effetti è bastata la forza della ripresa nel settore privato, per compensare la momentanea crisi del pubblico impiego. A confermare la solidità dell’economia reale Usa, c’è l’analisi di una «curva» della assunzioni che sta girando verso l’alto. La media mensile dell’ultimo trimestre è stata di 202.000 nuovi posti di lavoro, in accelerazione rispetto alla media degli ultimi 12 mesi che è 194.000 nuovi posti mensili. Tra i settori che tirano spicca l’industria manifatturiera, che ormai conosce una vera e propria rinascita, oltre ai servizi come il commercio e la ristorazione, le libere professioni e l’assistenza informatica.
L’ottimo dato americano rilancia gli interrogativi sulle prossime mosse della Federal Reserve. Mentre la Bce ha tardivamente ridotto il suo tasso d’interesse direttivo allo 0,25%, quello americano è già a quota zero da ben quattro anni. La conferma di una crescita robusta potrebbe indurre la Fed a cambiare rotta? Non ancora. La banca centrale americana, a differenza della Bce, considera come la sua priorità il raggiungimento del pieno impiego. E quell’obiettivo è stato identificato con un tasso di disoccupazione del 5,5%. Oggi siamo a quota 7,3% che è un risultato ottimo se confrontato con l’Europa ma non sufficiente per la Fed. La banca centrale Usa ha fatto intendere che il tasso zero non si muoverà fino al 2017, anno in cui prevede che il tasso di disoccupazione possa finalmente raggiungere il 5,5%. Diverso è il discorso per la politica del «quantitative easing », quelle operazioni di mercato aperto con cui la Fed acquista titoli al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese creando liquidità. Questo strumento eccezionale di sostegno della ripresa doveva cominciare ad essere ridimensionato da settembre. Poi la Fed ci ha ripensato, preoccupata dallo shutdown e da altri segnali di debolezza della ripresa. Ora il graduale ridimensionamento degli acquisti di bond tornerà in discussione, anche se in un orizzonte di tempo meno immediato. Il rischio è che si stia creando una nuova bolla speculativa, di cui la quotazione stratosferica di Twitter è stata l’ennesimo segnale. Per l’eurozona i dati di ieri hanno generato almeno una consolazione: il ribasso dell’euro, sceso a quota 1,33 sul dollaro. Ma è un ribasso che dovrebbe proseguire ben oltre, per restituire alle esportazioni italiane o francesi tutta la competitività perduta.


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