Stiglitz: area euro ancora a rischio, prigioniera dell’austerity

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MILANO — Sono passati più di cinque anni dalla crisi finanziaria del 2008 che ha spazzato via milioni di posti di lavoro in tutto il mondo. Ma «questa crisi gigantesca di fatto non ha cambiato la cultura che l’ha provocata», afferma Joseph Stiglitz, 70 anni, premio Nobel per l’economia 2001 e docente alla Columbia University. Le conseguenze sono che le disuguaglianze sono aumentate molto in tutti i Paesi avanzati, ma soprattutto in America, dove un postino guadagna meno di 40 anni fa, mentre un top manager riceve 250 volte la remunerazione media di un dipendente della stessa azienda. Le opportunità sono diminuite, in particolare per i giovani, che sono meno istruiti e più delusi dei loro padri. I dati sui nuovi posti di lavoro creati negli Usa sono ingannevoli, perché non bastano a stabilizzare l’economia e la società civile. Il pianeta, insomma, resta un luogo «rischioso, molto più di quanto i politici vogliano farci credere», spiega l’economista, intervenuto al convegno organizzato a Milano dalla società di gestione Kairos.
Professor Stiglitz, quale area geografica oggi la preoccupa di più?
«Tutto il mondo presenta rischi: corriamo il pericolo di una nuova impasse politica negli Stati Uniti; un rallentamento della crescita in Cina e in altre economie emergenti; assistiamo alle continue crisi della moneta comune in Europa. Ma il pericolo più imminente per la stabilità dell’economia globale è dato dall’eurozona, che rappresenta un rischio cronico. La struttura dell’area euro ha problemi fondamentali: lo si sapeva da quando è stata creata, e non è una sorpresa che il meccanismo sia entrato in crisi. Sfortunatamente le riforme strutturali, che si sarebbero dovute creare strada facendo, sono state terribilmente lente. E questi problemi, combinati con le politiche di austerità, hanno frenato la crescita. Per molti giovani però si tratta di una vera e propria depressione: come altro chiamare una situazione in cui il 50%-60% dei giovani è senza lavoro? Sono costi enormi che sconteremo per decenni. Invece di migliorare le proprie abilità, troppi ragazzi le vedono atrofizzare. Purtroppo non vedo nessuna capacità di risolvere i problemi nei prossimi mesi. E questo sfocerà in nuovi rischi per la stabilità non solo dell’eurozona ma dell’economia globale».
Cosa servirebbe subito per invertire la rotta?
«L’Europa deve accelerare sull’Unione bancaria, accompagnandola con un’assicurazione europea dei depositi e un meccanismo di Risoluzione comune; abbandonare le politiche di austerità e puntare invece su politiche per favorire la crescita, sfruttando ad esempio i fondi Bei per finanziare le piccole e medie imprese che faticano ad ottenere credito, e investendo su istruzione e innovazione tecnologica; introdurre gli eurobond, così tutti i Paesi possono indebitarsi a tassi negativi».
Gli Usa sembrano ripartiti: gli ultimi dati indicano che il prodotto interno lordo è salito del 2,8% nel terzo trimestre, e a ottobre il settore privato ha creato oltre 200 mila posti di lavoro nonostante lo shutdown del governo.
«Non bisogna mai dare troppa importanza a un singolo trimestre. Quanto all’occupazione, il sondaggio realizzato sulle famiglie mostra risultati opposti ai dati del governo, con circa 700 mila posti perduti. Ma supponiamo che fossero stati creati davvero 200 mila posti di lavoro: i numeri sono migliori che in passato ma non abbastanza buoni, di questo passo serviranno più di 10 anni per tornare alla piena occupazione. La verità è che l tasso ufficiale nasconde il fatto che molti nuovi lavori sono part time e non include coloro che hanno rinunciato a cercare lavoro. Perciò direi che il tasso reale della disoccupazione americana è intorno al 10%».
Qual è il prezzo delle crescenti disuguaglianze?
«Tutti i Paesi, in particolare gli Stati Uniti, stanno pagando un prezzo molto elevato per l’alto livello di disparità: abbiamo crescita più bassa, meno efficienza e più instabilità, perché larghe porzioni della popolazione vivono al di sotto del loro potenziale. Un tempo credevamo che ci fosse un trade-off , che avremmo potuto ridurre le disuguaglianze solo rinunciando a efficienza e crescita. Oggi sappiamo che c’è un doppio dividendo: più uguaglianza significa anche più crescita».
Giuliana Ferraino


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