Viaggio nelle paure di un terrorista da Guantanamo

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WASHINGTON — Nel labirinto infelice della follia di un uomo, di un tempo, di una guerra empia, arrivano i diari di Abu Zubaydah a condurci verso la cella del carcere di Guantanamo dove quest’uomo, un presunto “super terrorista”, è rinchiuso da ben undici anni, e torturato, senza speranza di uscirne. Zubaydah, colui che Bush, Cheney e Rumsfeld giudicarono — sbagliando — addirittura il capo operativo di Al Qaeda, e uno dei tanti “cervelli” dell’11 settembre, ha raccontato se stesso, la propria vita, la propria conversione da studente di informatica in jihadista, a un “amico di matita”, un compagno immaginario in 13 volumi di diario che oggi il canale americano dell’emittente araba Al Jazeera ha ottenuto e pubblicato in esclusiva.
La sua è la storia di un giovane palestinese nato per caso in Arabia Saudita che cerca la propria identità nel frastuono di una vita, e di una casa, dove soltanto la fede, e poi la fiducia nello «sceicco», in Osama bin Laden, sembrano essere il lumicino nel buio. «Se potessi chiedere a Dio di cancellare i miei anni vissuti fino a ora, lo farei, ma so che non è possibile » scrive Zubaydah a Hani, il suo amico immaginario. «Se potessi dimenticare i giorni nella mia casa d’infanzia, consumati fra le urla, il pianto, le botte di mio padre, le lacrime di mia madre, lo farei», ma «non ho nessuno con cui parlare, neppure amici veri, perchè nel mio mondo non ci sono veri amici e all’amicizia non credo, se non nella tua». Cioè nel suo alter ego, in Hani, in se stesso.
A questo giovane uomo, che fu ferito e catturato dai servizi segreti pachistani nel 2002 mentre tentava di sfuggire al collasso del regime Taliban, e indicò sotto tortura in Khalid Sheikh Mohammed la mente dell’11 settembre, l’adesione ai mujaheddin della rete terroristica apparve come la sola, possibile uscita dal buio nel quale la vita, e la confusione mentale della propria personalità multipa, lo avevano precipitato. La militanza e quelle pagine alle quale affidava giorno dopo giorno le proprie confidenza e che la Cia e lo Fbi si sono contese per anni, bollandole come supersegrete, sono state la tragica speranza di uscire dal labirinto.
È infatti in Afghanistan, nei campi d’addestramento di Al Qaeda all’inizio degli anni ‘90, che Abu Zubaydah sembra finalmente trovare sollievo. «A te che hai le mia età e che forse un giorno incontrerò, se sarò ancora vivo — scrive sempre a Hani nei diari — posso dire che soltanto in quegli accampamenti ho trovato un poco di pace. Ciascuno degli altri mujaheddin ha storie da raccontare alla sera attorno al fuoco, storie di notti oscure, di prigionia, di maltrattamenti, o storie di castelli bianchi, piene di sogni e di sacrificio». Ma quando Zubaydah arriva in Afghanistan per combattere contro i Sovietici, l’Urss si è già ritirata e quel che resta è una confusa, sanguinosa battaglia con altre bande, con altri signori della guerra: «Non c’è più nessun futuro per me qui, altro che lottare per fare la volontà di Allah. Ho paura, ma so che la causa è giusta e ripongo la mia fiducia nell’Onnipotente».
Nel primo volume, quello che è stato pubblicato, Abu Zubaydah non spiega il passaggio da questa resistenza interiore al jihadismo violento. Nota che «alcuni di questi giovani sono pronti a compiere la volontà di Allah e il destino scritto per loro». «Vorrei completare il mio addestramento e poi tornare in India per finire gli studi di informatica» spiega a se stesso e si avverte, nelle pagine, il desiderio di essere un uomo qualsiasi, uno “normale”. «Non faccio mai sesso per motivi religiosi, ma non ho dubbi sulla mia virilità», confida, per rassicurare se stesso. Ma narra, con particolari accaldati, i baci e le carezze scambiate con una domestica cristiana in Pakistan, Flumina, un “petting” prolungato e intenso, ma senza arrivare «fino alla grande cosa finale». Sarà in Pakistan che si farà quella fama di capo operativo e logistico per Bin Laden che lo spedirà nella braccia degli americani a Guantanamo e poi nelle torture inflitte nelle segrete polacche e thailandesi dove i suoi carcerieri lo spediranno per essere sottoposto a supplizi e “interrogatori speciali”: fino alle 83 sedute di waterboarding, l’annegamento simulato. Ma Zubaydah ha una fobia speciale per gli insetti e i suoi aguzzini lo chiuderanno in bare di legno rovesciandogli addosso cascate di ragni, scarafaggi, scarabei. Prima che ciò accadesse, in Pakistan era diventato responsabile dello smistamento di reclute jihadiste a varie organizzazioni affiliate dentro la Rete, (Al Qaeda in arabo ndr), come al Fatheen (i Conquistatori) Al-Shuhadaa (i Martiri) Al-Ansar (I Sostenitori). «Smistavamo poi tutti secondo la nazionalità, inviandoli in diversi Paesi dopo averli addestrati all’uso della armi che prima l’Armata Rossa e poi gli Americani lasciavano dietro — racconta — davamo a tutti nomi di battaglia, e anche il mio Abu Zubaydah è un nome di battaglia, non il mio vero che non ricordo più». Una scheggia di artiglieria che lo aveva ferito alla testa gli aveva cancellato la memoria. «Tutti mi dicevano che io ero Abu (che in arabo significa padre, ndr) Zubaydah e così fu».
L’eccitazione, l’entusiasmo per la guerra santa svaniscono in fretta. «Vedevo attraverso i binocoli la battaglia e i cannoni che sparavano verso di me e mi aspettavo di morire ad ogni istante». Vacilla, e lo confida a Hani, poi a Mohammed, un altro amico immaginario, ma neppure le lettere vere del padre che vorrebbe riportarlo a casa, quando la madre si ammala gravemente, lo strappano alle proprie esitazioni. Resiste, fugge con i Taliban e i qaedisti inseguiti dagli americani, lo catturano. E da quella cattura nasce la leggenda del “Super terrorista”. Nei suoi interrogatori, sotto tortura, racconta, millanta, fiumi di progetti piani. Bush e Rumsfeld diranno di avere sventato, attraverso di lui, piani diabolici per far saltare il Ponte di Brooklyn, ma la Cia non gli crederà mai. E oggi, 11 anni dopo, l’Amministrazione Obama, che pure lo tiene sottochiave a Guantanamo, non crede più al suo ruolo fondamentale in Al Qaeda. Abu Zubaydah resta recluso, senza processo, solo con i suoi diari, che continua a scrivere, giorno dopo giorno.


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