La realtà delle nuove tute blu e quell’anomalia ignorata

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 Sappiamo benissimo quale realtà e quali contraddizioni ci squaderna davanti agli occhi la tragedia di Prato, quello che sembra un remake delle fabbriche inglesi dell’Ottocento descritto nelle pagine di Dickens ed Engels è invece il tratto più amaro della modernità, della globalizzazione che ha portato a lavorare a Prato ragazzi che non sanno nemmeno in quale punto del pianeta siano capitati. Accanto però alle onoranze civili il modo più giusto per non rendere vano il loro sacrificio è tentare di riflettere sui rapporti che legano la nostra economia a quella cinese e che finiscono per unire, in più d’un punto, il destino delle due comunità.
Per il delicato momento che vive il nostro Paese avremmo bisogno di robusti investimenti stranieri e di questa necessità sono convinte non solo le autorità centrali di Roma ma gli attori sociali e persino i protagonisti della vita di tutti i giorni. Gli operai della Fac di Savona si rivolgono al sito www.vendereaicinesi.it per cercare un compratore della loro fabbrica di ceramiche ormai fallita, alla Acc di Belluno si contano i giorni in attesa di un accordo che veda arrivare gli asiatici e salvare così un migliaio di posti di lavoro dell’indotto dell’elettrodomestico nel territorio a cavallo tra Veneto e Friuli Venezia Giulia. Persino nel calcio i tifosi aspettano che un tycoon cinese entri del capitale della loro amatissima squadra di calcio, la Roma, sostituendo l’Unicredit, una delle due grandi banche italiane. Per l’Alitalia idem: in tanti hanno sperato invano in un interessamento dell’Air China quantomeno per mettere i cinesi in competizione con i nostri cugini dell’Air France e strappare migliori condizioni nella distribuzione dei compiti e delle rotte. Non è finita: stiamo organizzando l’Expo 2015 e contiamo da qui a quella data di intercettare quote crescenti di turisti cinesi che visitino il nostro Paese e possibilmente si innamorino dei nostri prodotti e del nostro lifestyle. Per farla breve, dopo cinque anni di crisi abbiamo ormai maturato l’idea che per uscire dalla recessione ci servono nuovi schemi e nuovi interlocutori e spesso speriamo di trovarli nei nipotini di Deng.
Purtroppo però mentre nel favorire l’afflusso di capitali cinesi in Italia facciamo passi in avanti tutto sommato modesti, e temiamo che gli asiatici trovino più attrattivi i nostri partner europei, tragedie come quella di Prato ci ricordano brutalmente che i cinesi nell’economia italiana ci sono già e che la convivenza va tutt’altro che bene. La storia della Chinatown in riva al Bisenzio è rimasta per troppo tempo sotto traccia, sono stati compiuti errori macroscopici dalle amministrazioni locali e dalle autorità nazionali quando si sono chiusi tutte e due gli occhi mentre nasceva un distretto parallelo del tessile-abbigliamento, un agglomerato industriale che ha via via fatto dell’illegalità il modello di business vincente. Sia chiaro, il declino di Prato e della sua straordinaria storia di imprenditoria dei tessuti non è avvenuto per esclusiva colpa dei cinesi (i nuovi arrivati si sono posizionati con il loro «pronto moda» a valle delle manifatture locali) ma è nato comunque qualcosa di storto. Abbiamo permesso che nel cuore della civilissima Toscana in centinaia di laboratori clandestini imprenditori cinesi senza scrupolo obbligassero i loro connazionali più deboli e ricattabili a lavorare come schiavi. A dormire accanto alle macchine da cucire, ad allattare i bambini rubando il tempo alla produzione. Grazie a questo tipo di sfruttamento il distretto cinese di Prato si è rivelato negli anni una straordinaria macchina da soldi che ha venduto sui mercati di mezza Europa quantità incredibili di un made in Italy griffato di lavoro illegale, intimidazione ed evasione fiscale.
Se è questa la storia che c’è dietro il rogo di Prato è necessario chiedersi cosa fare, come conciliare la convivenza con le comunità cinesi con il pieno rispetto della nostra civiltà e dei diritti elementari del lavoro. Non possiamo tollerare zone franche ma in parallelo dobbiamo essere capaci di costruire un dialogo che veda protagoniste le autorità dei due Paesi e passi, però, anche dentro la società civile. I sindacati italiani dovranno ricordarsi che esiste l’anomalia Prato, che i lavoratori cinesi hanno gli stessi diritti dei nostri e che il Primo Maggio dovrà essere anche un po’ giallo per esser vero. Un grande contributo potrà poi venire dalle seconde generazioni: i ragazzi cinesi che vivono a Prato, a Bologna, a Milano e in tante altre nostre città possono rappresentare la leva di un cambiamento. Leggendo quanto scrivono sul sito di Associna, l’appello ai genitori perché consentano loro di «amare l’Italia», di rispettare la nostra civiltà, qualche speranza c’è.
Dario Di Vico


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