«Il Principe» in esilio

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CINQUECENTO ANNI FA, IL 10 DICEMBRE 1513, NICCOLÒ MACHIAVELLI SCRIVE LA PIÙ FAMOSA DELLE SUE LETTERE. Racconta a Francesco Vettori la sua condizione di esiliato che passa le giornate a seguire il suo podere e a «ingaglioffarsi» all’osteria e le serate a leggere i classici e parlare con loro». E soprattutto annuncia di aver completato Il principe e la sua intenzione di donarlo a Giuliano de’ Medici, nella speranza che i nuovi signori di Firenze gli affidino un qualche incarico, «dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso».
Machiavelli ha passato gli anni dal 1498 al 1512 al servizio della repubblica di Firenze, ha svolto incarichi diplomatici di grande responsabilità e organizzato la milizia popolare. Caduto in disgrazia, si rivolge ai signori che lo hanno fatto incarcerare, torturare e poi esiliare rivendicando la sua competenza nell’«arte dello stato». Secondo molti si presenterebbe così come un puro tecnico della politica, disponibile a mettere la sua professionalità al servizio dei governanti di turno. È per questo scopo che avrebbe scritto un libretto che rientra nel genere letterario rinascimentale dei «consigli ai principi», avendo cura di introdurre strabilianti novità per attirare su di sé l’attenzione. Questa sorta di abiura, oltre che inutile per i destini personali di Machiavelli, si rivelerà temporanea: di lì a qualche anno Machiavelli tornerà a frequentare gli ambienti repubblicani, in particolare il circolo degli Orti Oricellari ai cui esponenti dedicherà i Discorsi.
Ma se Il principe è un esercizio letterario per ingraziarsi i Medici e ottenere un incarico, come spiegare l’impatto che questo libretto e poi le grandi opere teoriche e storiche hanno avuto sul pensiero politico occidentale? Lo stesso Machiavelli ci offre un indizio. Non voglio, scrive nella lettera dedicatoria, venire considerato presuntuoso perché, essendo «di basso ed infimo stato» mi metto a «discorrere e regolare e’ governi de’ principi». Per disegnare le pianure bisogna salire sui rilievi, e per disegnare le montagne guardarle dalla pianura; «similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare». È una dichiarazione di appartenenza, e sul bisogno che il principe, in particolare il «principe nuovo», il fondatore di un nuovo Stato, ha del popolo il testo ritornerà più volte.
NICCOLÒ E ANTONIO
Machiavelli, come è noto, dichiara «più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa». Fonda il realismo politico, e questo, secondo molti, significherebbe che la teoria politica deve essere «avalutativa», limitarsi a descrivere oggettivamente la realtà. Eppure Il principe si conclude con un’esortazione ai Medici a impegnarsi per la liberazione dell’Italia dal dominio straniero. Machiavelli adotta toni epici, evoca Ciro e Teseo e i miracoli che accompagnano la liberazione degli Ebrei guidata dal «principe nuovo» Mosè. Gli interpreti hanno discusso a lungo sull’effettivo significato dell’esortazione finale e molti hanno sostenuto che è un’aggiunta estrinseca.
Antonio Gramsci, recluso nel carcere di Turi, non aveva molti strumenti filologici a disposizione e viveva un isolamento assai più drammatico di quello sofferto da Machiavelli. In comune c’era la percezione di una triplice crisi: dell’Italia, di Firenze, personale per Machiavelli. Personale, dell’Italia, del movimento operaio, nel caso di Gramsci. Egli scrive che mentre «la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico», nell’invocazione finale di un principe nuovo che nella realtà storica non esisteva Machiavelli «si fa popolo, si confonde con il popolo».
Machiavelli prende le distanze dalla tradizione giusnaturalistica, per non dire dall’idea di un fondamento divino del potere, e introduce nuove categorie per una situazione nuova. Il suo realismo non è l’esclusione di principi e valori dalla politica; è la capacità creativa di individuare gli spazi di possibilità offerti dalla fortuna nel corso delle cose governato dalla necessità. Gramsci lo interpreta come una forma di educazione politica dei subalterni, perché chi appartiene ai gruppi dirigenti tradizionali il realismo politico lo acquisisce automaticamente.
Machiavelli critica l’immaginazione astratta degli stati che «non si sono mai visti né conosciuti essere in vero» ma risponde alla crisi con un sovrappiù di innovazione creativa. Inaugura così la politica moderna, la lunga stagione in cui la politica è stata capace di interpretare, indirizzare e governare i processi e i conflitti economici e sociali. Quanto siamo lontani da Machiavelli? È possibile oggi una tale immaginazione o la decadenza della politica è senza alternative, le decisioni vere si prendono altrove, sullo sfondo di una universale corruzione? Gramsci, da parte sua, insisteva sulla necessità dell’intervento politico consapevole per dare forma e indirizzo ai movimenti della società, per definire la volontà collettiva. E, come è noto, affidava questo compito al partito politico, incarnazione moderna del principe machiavelliano, «intellettuale collettivo». Ma qui, davvero, viviamo in un’altra epoca.


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