Soldi anti ’ndrangheta per i vestiti Così cadono le icone della legalità

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Nulla di inconsueto nei molti che, talvolta in malafede, alzano il ditino dicendo: visto?, son tutti uguali… No, non sono tutti uguali. E nemmeno i simboli, caduti o meno, lo sono.
Dopo Carolina Girasole, tocca a Rosy Canale, pure lei agli arresti domiciliari, come l’ex sindaca di Isola Capo Rizzuto. «Io non ho niente. La mia storia è l’unica cosa che ho», diceva Rosy agli amici. E forse la sua dannazione — se le accuse dell’inchiesta «Inganno» (truffa aggravata e peculato per lei; associazione mafiosa per due boss e due politici di San Luca) reggeranno al processo — sta proprio qui, nella voglia quasi patologica di mettere a frutto quella storia, di diventare ricca e famosa, scrollarsi di dosso un’esistenza storta e stentata, scrivere un best seller «alla Gomorra», sfondare come attrice impegnata. Quando ieri i carabinieri sono andati a prenderla, Rosy era appena reduce dalla rappresentazione a Cosenza del suo «Malaluna», il lavoro teatrale tratto dalla propria vita avventurosa. Due giorni prima l’avevano insignita del Premio Borsellino. E il 25 novembre Serena Dandini se l’era portata addirittura al Palazzo di Vetro di New York («è una combattente antimafia molto conosciuta in Italia»), tra le quindici voci narranti del suo «Ferite a morte»: preziosi monologhi sulla condizione femminile recitati lì, nell’eccezionale cornice delle Nazioni Unite. Adesso è facile alzare il ditino. Ma chi ha un briciolo di buonafede sa bene come in Calabria dividere il bene dal male con un colpo di spada sia operazione avventata se non impossibile.
Dieci anni fa, «Malaluna» era il bar di Rosy a Reggio. Lei raccontò di avere impedito alla ‘ndrangheta di venderci cocaina. Per questo, disse, le spaccarono una gamba e le fecero cadere i denti, picchiandola col calcio d’una pistola. Finì in ospedale per mesi, ma ancora oggi molti carabinieri e poliziotti dubitano di questa storia. Andò in tv. E diventò un simbolo vero quando, dopo la strage di Duisburg, riapparve a San Luca, la «capitale» mafiosa dell’Aspromonte dove il massacro era stato deciso, proclamandosi leader del Movimento delle donne, con un progetto manageriale per riscattare mamme e bambini del paese: asilo, ludoteca, centro femminile. Nulla di tutto ciò decollò mai e ora apprendiamo ufficialmente dagli atti dell’inchiesta ciò che qualche amico investigatore ci sussurrava da tempo: «Attento, quella fa affari con il marchio dell’antimafia». I progetti di San Luca non sarebbero insomma falliti per la tirchieria delle istituzioni (cosa di cui lei si lamentava sovente), ma perché Rosy si metteva in tasca i quattrini elargiti da consiglio regionale, prefettura, ministero della Gioventù, fondazione Enel Cuore; circa 160 mila euro: finiti in macchine, vestiti e perfino in una settimana bianca («me ne frego, non sono miei», avrebbe detto alla madre). «Storie che addolorano», dice il procuratore Cafiero De Raho. E ha ragione: l’effetto è raddoppiato perché pochi giorni fa è stata arrestata la Girasole, punta di diamante delle sindache contro la ‘ndrangheta. Cadono una dopo l’altra, come i dieci piccoli indiani. E tuttavia la faccenda sembra diversa. Perché questa di Rosy appare la caduta veloce di una ragazza scaltra e in fondo sfortunata, un lupo della steppa nella tagliola. A Isola Capo Rizzuto si intravede con più chiarezza una strategia: inquinare il fronte antimafia con «trasfusioni» di mafiosità. L’operazione successiva, estendere le ombre alle altre sindache antimafia, è puro fango.
Giustamente Nicola Gratteri, pm famoso, invita a diffidare dei paladini che strillano troppo nella lotta alle cosche. E tuttavia un primo esempio potrebbe venire proprio dai magistrati, se si astenessero, avendo in mano per lavoro fascicoli sulla mafia, dal tramutarli in saggi di successo. L’antimafia non può essere moda, ovvio. Però ha bisogno di facce e voci riconoscibili. Nella Locride potrete ancora trovare politici che negano tout court l’esistenza della ‘ndrangheta. Appena quattro anni fa, la squadra di calcio di San Luca scese in campo col lutto al braccio per la morte del padrino. I simboli servono a strappare ai boss l’egemonia culturale, a scardinare l’idea — radicata — che le cosche elargiscano una sorta di welfare meridionale. Sfilare per San Luca gridando che la mafia fa schifo, è un gesto che pesa. Che a farlo sia un’eroina fasulla e furbetta, è male, perché inficia il gesto. Ma, a costo di tirarci addosso gli strali dei puristi, noi crediamo che resti un’eco. E che, ancora oggi, il primo nemico da battere in Calabria sia il silenzio.


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