Tra i profughi cristiani di Siria “Al Qaeda ci dà la caccia un altro Natale di esilio e paura”

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EL KAA (LIBANO) — Hana è stata fortunata a trovare un affitto in questo paesino che il mosaico religioso libanese assegna al culto greco-cattolico, in fondo alla valle della Bekaa. Due stanze, un cucinino, la toilette in giardino, il tutto per 400 dollari al mese, possono bastare a due famiglie, la sua e quella della sorella Mariam, costrette a fuggire dalla loro casa di Qusayr, prima che la città venisse strappata ai ribelli dall’esercito siriano. «Siamo in undici a vivere in queste due camere. Ma almeno qui non patiamo il freddo», dice gettando uno sguardo al di là della finestra sulle montagne brulle e innevate oltre le quali c’è la Siria. «In questi giorni c’è chi sta molto peggio».
I cristiani d’Oriente – chiamiamoli così per riassumere la quindicina di sette che si rifanno alla chiesa di Roma sparse tra Siria, Libano e Iraq – rappresentano soltanto il 5 per cento della grande massa di rifugiati che lentamente ma inesorabilmente ha invaso il Libano: 835mila quelli registrati ad oggi dagli enti umanitari della Nazioni Unite, più un numero imprecisato di “clandestini”, stimato dalle autorità libanesi in non meno di 200mila persone. Il totale supera il milione, un quarto della popolazione libanese, nella stragrande maggioranza musulmani sunniti.
E non sono certo i cinquantamila cristiani venuti dalla Siria, quelli messi peggio nella grande marea di miseria, fame e disperazione generata dalla guerra siriana. Quelli che sognano un giorno di tornare in Siria sono rimasti qui, nel Nord del Libano, o, avendone i mezzi, hanno preso casa a Beirut. Ma la maggior parte, aspetta o cerca un visto per ricostruirsi una nuova vita altrove. Stati Uniti, Europa, Canada, Australia, le destinazioni preferite, anche per allontanarsi dalla diffidenza e dal malanimo di altri rifugiati siriani che considerano i cristiani come dei parvenu,
compromessi con il regime di Damasco di cui hanno condiviso le scelte.
Non bisogna allontanarsi troppo da el Kaa per trovare le immagini dell’emergenza umanitaria, aggravata dall’ondata di freddo, che si è abbattuta sul popolo dei rifugiati come un supplizio ulteriore. A Hersal, una ventina di chilometri più a Nord, gli accampamenti
di fortuna (guai a parlare di tendopoli, nozione che il governo libanese respinge, ossessionato com’è dal timore che il provvisorio diventi permanente) sprofondano nel fango. Gli ospedali sono al completo.
In generale, non sono il pane o le coperte che mancano, ma qualsiasi servizio che possa offrire, pur nella precarietà, un barlume di normalità. Ad esempio, circa 400mila bambini, quasi il 50 per cento dei rifugiati, non vanno a scuola, perché il sistema libanese prevede che l’insegnamento si svolga in francese (o in inglese,) mentre loro parlano soltanto l’arabo.
Ma qui, ad al Kaa, i 4 figli di Hana in età scolare, più altri quattro bambini di una famiglia musulmana che vive poco lontano, possono continuare a studiare nelle miniclasse che la sorella del parroco, Elian Nasrallah, tiene ogni giorno: «Cristianità — dice padre Elian — è innanzitutto accoglienza».
E tuttavia, pur vivendo in condizioni relativamente migliori rispetto alla grande massa dei profughi, i cristiani fuggiti dalla Siria hanno portato con sé, assieme all’immancabile statuetta in gesso della Madonna, che loro chiamano in inglese Saint Mary, anche quel senso di accerchiamento che li accompagna da generazioni. Una condizione che li ha spinti a vedere nella tolleranza verso le minoranze praticata dal regime di Assad una sorta di scudo protettivo ma che oggi rischia di ritorcersi contro di loro.
«Siamo fuggiti quando a Qusayr si sono insediati i ribelli di Al Nusra (una formazione jihadista legata ad al Qaeda, n.d.r.) e hanno cominciato a dire che nella nuova Siria non ci sarebbe stato posto per i cristiani. Noi per loro siamo infedeli. Scandivano slogan tipo: i cristiani a Beirut, gli alawiti (la setta eterodossa dell’Islam, cui appartengono la famiglia del presidente Assad, oltre ai vertici del regime n.d.r.) al cimitero.
Dopo alcune settimane lo slogan era diventato: le donne cristiane per il piacere, gli uomini alawiti per la tortura».
Parlano di rastrellamenti casa per casa, di decine di uomini portati via e ma più ritornati. George, una altro cristiano venuto dalla zona di Qusayr racconta di una fanciulla di 12 anni, ferita alle gambe da un cecchino, mentre cercava di allontanarsi dal suo paesino spingendo la sedia a rotelle con il fratello handicappato.
Così, nell’incertezza esistenziale e nella totale incapacità di decifrare il futuro, i cristiani sembrano bloccati in una sorta di terra di nessuno, tra la tentazione di dare ancora fiducia ad un regime che alla fine non ha saputo proteggerli ma li ha soltanto usati e la paura che ciò che verrebbe dopo, se Assad dovesse cadere, sarebbe per loro un regime anche peggiore. E allora, preferiscono non tornare a casa, anche se Qusayr è stata ripresa dalle mani dei ribelli. Semplicemente, aspettano.


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