Beirut, bomba contro leader anti-Assad

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GERUSALEMME — Libano sempre più Paese-cuscinetto precipitato nel cuore delle tensioni regionali che insanguinano la Siria. L’assassinio ieri mattina nel centro di Beirut del 62enne Muhammad Shatah, esponente di punta dell’establishment sunnita libanese, è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di attentati che ricordano da vicino le violenze che scatenarono la guerra civile quasi un trentennio fa e da allora rappresentano il fantasma della dissoluzione incombente.
La deflagrazione dell’autobomba con almeno 60 chili di esplosivo avviene poco dopo le nove presso l’hotel Phoenicia al passaggio del convoglio di auto che conducono Shatah alla manifestazione proclamata dagli attivisti del movimento «14 marzo» per ricordare che il prossimo 16 gennaio dovrebbe finalmente aprirsi al Tribunale Internazionale dell’Aja il processo contro i responsabili dell’assassinio di Rafiq Hariri il 14 febbraio 2005. Carcasse di veicoli in fiamme, calcinacci, detriti, sono immagini che gli abitanti di Beirut vorrebbero dimenticare, ma restano impresse negli incubi collettivi. Shatah muore carbonizzato a poche centinaia di metri dal luogo dove in circostanze praticamente eguali perì il suo antico mentore. Ieri nell’esplosione hanno perso la vita almeno altre cinque persone, i feriti sono una settantina. Le circostanze sono importanti, rivelano il significato profondo di questo nuovo attentato e le valenze politiche. Shatah appare infatti un personaggio chiave. La sua carriera è legata a filo doppio a Rafiq Hariri, il ricco e carismatico imprenditore assurto a ruolo di leader della comunità sunnita dopo la fine della guerra civile nel 1990 e l’instaurazione della presenza militare siriana in Libano. Ambasciatore negli Usa, Shatah diventa poi consigliere personale del giovane Saad Hariri (che prende il posto del padre nel 2005) e ministro delle Finanze. È lui tra l’altro ad insistere per il ritiro delle truppe siriane nel giugno 2005 e per continuare a enfatizzare le responsabilità di Damasco e dell’Hezbollah (la milizia sciita pro-iraniana) nella morte di Rafiq.
Tuttavia, da almeno due anni lo scontro armato in Siria si sta riverberando in modo violento nel Paese dei cedri. Lo stesso Saad ha lasciato Beirut sin dalla fine del 2011 e da allora vive in varie località segrete all’estero nel timore di essere assassinato. Ieri comunque non ha esitato nell’indicare l’Hezbollah, e indirettamente i suoi alleati nel regime di Bashar Assad, quali responsabili della morte di Shatah. «Gli assassini sono coloro che fuggono la giustizia internazionale», ha dichiarato riferendosi a cinque militanti della milizia sciita già ufficiosamente incriminati dalla commissione di inchiesta delle Nazioni Unite nel ruolo di esecutori dell’omicidio del padre, i quali però non saranno presenti al processo all’Aja. La tensione è esacerbata dalla presenza di centinaia di migliaia di profughi siriani. L’arrivo di nuovi immigrati rischia tra l’altro di far esplodere i delicatissimi equilibri demografici interni tra sciiti, sunniti e cristiani. Non a caso il governo di Beirut si oppone all’instaurazione di campi profughi per evitare che gli immigrati si stabiliscano nel Paese in modo permanente. Ma ciò non impedisce la catena degli attentati. Tra luglio e agosto due bombe hanno causato il terrore tra la comunità sciita a Beirut. In risposta sono giunti i quasi 40 morti sunniti di fronte a una moschea di Tripoli il 23 agosto. Cui è seguito il doppio attentato presso l’ambasciata dell’Iran a Beirut il 19 novembre e l’assassinio di Hassan Lakkis, leader militare di Hezbollah, il 4 dicembre. Tutto lascia credere che la scia del sangue sia destinata a continuare.
Lorenzo Cremonesi


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