Erdogan fa un’ecatombe di ministri per salvare il posto

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Scatole di scarpe imbottite di dollari nascoste negli armadi contro scatole straripanti di frustrazione, brandite dai manifestanti tornati in piazza per chiedere le dimissioni del premier Tayyip Erdogan. La Tangentopoli turca sta mettendo a durissima prova il suo governo e la sua leadership, oltre al suo cerchio magico fatto di palazzinari timorati di Allah, uomini d’affari con mogli rigorosamente velate e conflitti di interessi. Non mancano inoltre alti funzionari pubblici, tra i quali l’Ad della banca statale Halk, Suleyman Aslan, nella cui casa sono stati trovati 5 milioni di dollari occultati nella scarpiera e organi di stampa asserviti o di proprietà di parenti, come il gruppo Calik, amministrato dal genero di Erdogan che possiede contemporaneamente imprese di costruzioni e giornali.
IL PREMIER ha cercato di salvare il salvabile con un mega rimpasto in cui sono stati sostituiti 10 ministri. Ma è arrivato troppo tardi e non ha, ovviamente, convinto l’opposizione, né i milioni di cittadini che sette mesi fa scesero nelle strade di tutte le principali città turche contro la sua brutale intolleranza nei confronti degli ambientalisti impegnati a proteggere il parco di Gezi dal suo progetto di cementificarlo. Un tentativo che gli stava riuscendo grazie alla complicità del ministro dell’ambiente-urbanistica Erdogan Bayraktar, il cui figlio è stato arrestato il 17 dicembre nell’ambito della maxi inchiesta per corruzione. Nella retata sono finiti in carcere anche il figlio del ministro degli Interni Muammer Güler e dell’Economia Zafer Caglayan.
Prima di accettare le loro dimissioni e procedere con il rimpasto, il premier ha cercato di insabbiare l’inchiesta rimuovendo i capi e i quadri della polizia (più di 400) che hanno investigato assieme ai magistrati ed eseguito il blitz, accusandoli di essere parte di un complotto ordito da forze oscure e legate ad ambienti stranieri. Si tratta peraltro di quella stessa polizia che Erdogan aveva definito “eroica”, pur avendo ucciso cinque giovani manifestanti disarmati, e difeso dalle critiche di violenza sproporzionata durante la sollevazione popolare estiva e di quei magistrati che aveva elogiato per aver istruito il maxi processo Ergenekon, una sorta di purga contro stampa e militari non in linea con la sua visione affaristica e islamica della società turca. “È un’operazione sporca come quella di Gezi per cercare di far cadere il mio governo a 3 mesi dalle elezioni regionali”, ha urlato Erdogan ai suoi sostenitori durante un comizio.
STAVOLTA però l’accusa potrebbe essere non del tutto campata in aria perché il suo più temibile nemico, il ricchissimo e influente predicatore islamico Fetullah Gullen, suo mentore e sostenitore negli scorsi anni, gliel’ha giurata per aver deciso di chiudere le scuole private preparatorie per gli esami di Stato. Nelle scuole del “Servizio” – il nome della setta di Gulen – hanno studiato molti dirigenti di polizia e magistrati che ora si trovano nei posti di comando e che, fino alla sentenza Ergenekon di agosto, erano considerati anche loro eroici. Uno di loro, Maummer Akkas, ha detto: “Tutti i miei colleghi e l’opinione pubblica dovrebbero sapere che come procuratore non sono riuscito ad avviare un’indagine”, riferendosi a un’inchiesta collaterale in cui sarebbe implicato anche il figlio di Erdogan. Fetullah Gulen, peraltro, vive in autoesilio negli Stati Uniti da 13 anni ed Erdogan sostiene che dietro di lui ci sia lo zampino degli Stati Uniti, tanto che l’altro giorno ha minacciato l’ambasciatore Usa in Tiurchia, Ricciardone di espulsione se “non si farà gli affari suoi e continuerà a ingerire negli affari interni turchi”.
Gli Usa, fin dai tempi di Bush junior hanno sotenuto Erdogan come garante dei loro affari, della Nato e dell’islam moderato in quest’area bollente del Medio Oriente. E in questi anni di egemonia incontrastata, Erdogan e il suo partito ( Akp) non hanno fatto prigionieri, licenziando e accusando di complotto i generali laici e i giornalisti che criticavano le mani sulla città, anzi su un Paese intero, di questo “sultano” post moderno convinto di poter rinverdire il potere degli ottomani.


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