Il poker nel Pacifico e i rischi di scontro

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Se c’è un americano che conosce bene Xi Jinping è Joe Biden. Il vice di Obama ha incontrato il leader cinese diverse volte, quando Xi non era ancora salito al vertice del Partito comunista e dello Stato. Due personalità diverse: Biden figlio di un piccolo venditore di auto usate della Middle America; Xi un «principe rosso», figlio di un alto dignitario della rivoluzione maoista, allevato per il potere. Eppure i due si capiscono, possono parlare di affari insieme. E gli affari questa volta sono complicati e rischiosi.
La Cina a fine ottobre ha improvvisamente annunciato l’istituzione di una «zona di difesa e identificazione aerea» che si allarga a Est fino alle isole Senkaku, amministrate dal Giappone ma rivendicate da Pechino sotto il nome di Diaoyu. Si sono levati in volo B-52 americani, aerei da caccia giapponesi e sudcoreani, intercettori cinesi, in un pericoloso gioco di guerra. Ora Biden vede Xi a Pechino, con l’obiettivo di aprire un canale di comunicazione che eviti un incidente capace come minimo di far precipitare le Borse mondiali. Qualche schermaglia in avvio: Biden ha invitato gli studenti cinesi a «pensare liberamente»; la stampa cinese lo ha ammonito a «non fare osservazioni errate».
Ma da parte cinese c’è attesa per i colloqui. «Ci è sembrato che nella gestione della recente crisi interna del budget, Biden non sia stato in prima linea, lo abbiamo visto solo una volta mentre mangiava un panino con Obama, ma era una photo opportunity. Quindi ci aspettiamo che cerchi di giocare un ruolo da protagonista in campo internazionale. Pensiamo che voglia preparare un viaggio di Obama l’anno prossimo», ci spiega il professor Diao Daming, direttore dell’Institute of American Studies dell’Accademia delle scienze, think tank del governo cinese.
Ma quanto è critica ora la situazione? Secondo Kurt Campbell, ex sottosegretario agli Esteri di Obama e architetto della politica «Pivot to Asia» che prevedeva il ridispiegamento delle forze Usa nel Pacifico, è il momento che la Casa Bianca «tracci una linea» con i cinesi. Una linea? L’amministrazione Usa sembra disegnare curve, più che linee: prima ha risposto alla «zona difensiva di identificazione aerea» lanciata da Pechino il 28 novembre facendola attraversare dai suoi B-52; subito dopo ha consigliato alle compagnie aeree Usa di piegarsi alle regole cinesi, deludendo gli alleati giapponesi; poi Biden è andato a Tokyo a proclamare che «noi, gli Stati Uniti, siamo profondamente preoccupati dal tentativo cinese di cambiare lo status quo nella regione». Campbell, intervistato dalla Cnn , replica dicendo che un conto è la risposta militare, un altro la necessità di evitare pericoli per il traffico civile. La memoria torna sempre al volo Kal 007, il Boeing sudcoreano abbattuto da un caccia sovietico nel 1983 «per errore»: 269 civili uccisi per un errore. Campbell peraltro è convinto che «una scaramuccia» militare nel cielo delle Senkaku a questo punto sia inevitabile.
Stephen Hadley, che è stato consigliere alla sicurezza nazionale di Bush, dice al Corriere che il primo sbaglio è stato proprio il «Pivot to Asia» di Obama: «Gli Stati Uniti non hanno mai lasciato l’Asia, sono una potenza residente nel Pacifico, per questo non avevano bisogno di proclamare che sarebbero tornati. C’erano contrasti nell’amministrazione sul “Pivot to Asia”. E anche chi era a favore, pensava soprattutto alla necessità di reimpiegare le forze liberate dalle crisi mediorientali. Ora, dalla Siria alla Libia, vediamo che spostare il centro della nostra azione dal Medio Oriente non è più possibile». Quindi un doppio danno: si sono allarmati i cinesi e non ci sono forse neanche le risorse per far fronte alla promessa maldestra.
Hadley resta fiducioso, ci ha detto di credere nella serietà di Xi Jinping che a giugno nel vertice in California con Obama ha parlato di un nuovo modello di relazione con l’America. Però, in autunno, al culmine della crisi per il bilancio che ha tenuto in scacco Washington per settimane, l’agenzia di notizie statale Xinhua ha invocato una «de-americanizzazione» del mondo, almeno da un punto di vista di dipendenza finanziaria (Pechino è il maggior detentore di titoli del debito pubblico Usa ed era frustrata dal balletto dello shutdown e dallo spettro default).
In questa selva di segnali contrastanti, di sicuro, ancora per i prossimi dieci anni Pechino resterà relativamente più debole della superpotenza americana, dal punto di vista economico e militare. E proprio questa distanza accresce il rischio di scontro tra i due attori principali della scena globalizzata, gli Usa forse declinanti e la Cina in ascesa. C’è un ultimo rischio: per descriverlo gli analisti dell’European Council on Foreign Relations fanno ricorso alla teoria di Freud sul «narcisismo delle piccole differenze», la tendenza di popoli e leader essenzialmente simili per obiettivi a fissarsi su differenze minori per giustificare i loro sentimenti ostili. Questo narcisismo, oltre che per le relazioni Usa-Cina, vale anche per quelle Cina-Giappone.
Scoppierà l’incidente militare temuto da Washington? Gli strateghi di Pechino sono convinti che americani e giapponesi non abbiano altre risposte oltre a volare, quindi avrebbero finito le carte. Però, la Cina non è riuscita a vincere la mano di poker. E nel mazzo non ci sono più assi, per nessuno.


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