Inchieste, nomine e nessun piano. Addio alla Macroregione

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Ricordate la Macroregione del Nord? È deragliata sulla linea Milano-Venezia. La vittoria di Roberto Maroni alle elezioni regionali doveva cementare l’alleanza fisica fra la Lombardia e le due grandi Regioni confinanti, il Piemonte e il Veneto, già in mano leghista. Categorica la parola d’ordine: trattenere almeno il 75% delle tasse pagate in quei territori. E con i piani secessionisti parcheggiati in soffitta, la Macroregione poteva perfino sembrare un surrogato presentabile agli elettori

 Dunque, giù proclami: «Vogliamo mettere insieme le forze delle Regioni del Nord, per creare un sistema omogeneo, e farne una forza tale che qualunque governo c’è a Roma o Bruxelles debba tenerne conto». Non senza qualche accenno celodurista. Tipo: «Se serve, faremo guerra a Roma e al governo». Ma da quel «gli facciamo un mazzo così», pronunciato a Trieste in aprile prefigurando l’improbabile adesione del Friuli-Venezia Giulia appena conquistato dalla sinistra, sembra passato un secolo.
A luglio il Veneto ha presentato il nuovo orario ferroviario dei collegamenti regionali, con una sorpresina per la Lombardia: otto corse in partenza da Venezia che una volta arrivavano a Milano ora si fermano a Verona. Il motivo? La necessità di tagliare le spese. Tre milioni, costavano quei treni. La Lombardia ci ha messo una pezza prolungando fino a Venezia alcuni dei suoi collegamenti. Ma la faccenda, anche a non voler pensar male, ha messo in evidenza che non c’è un gran dialogo. Fatto piuttosto grave, in prospettiva «macroregionale». Sempre che quella prospettiva sia mai realmente esistita: se è vero che non c’è notizia, in questi mesi, di memorabili riunioni sul tema fra gli stati maggiori delle tre Regioni.
D’altra parte anche le difficoltà del rapporto con il Piemonte di Roberto Cota sono in questo momento oggettive, dopo il ciclone dei rimborsi ai consiglieri regionali che sta facendo ballare anche il governatore. Lui s’indigna: «La macchina del fango è in moto. Evidentemente una Lega che riparte fa paura». Ma gli episodi che continuano a saltare fuori dai verbali dell’ex tesoriere Francesco Belsito non sono certo un buon viatico per un partito da ricostruire, dopo le primarie che hanno consegnato, con 8.161 preferenze e un’affluenza di appena il 59,9% dei militanti, la segreteria a Matteo Salvini. Certificando insieme il triste crepuscolo del fondatore del Carroccio, Umberto Bossi, destinatario di 1.833 voti.
Una situazione tale da far risaltare dettagli che in altri momenti sarebbero stati considerati innocui. Uno su tutti: segretario del partito fino a pochi giorni fa nonché portabandiera del rinnovamento interno, Maroni non è iscritto al gruppo consiliare della Lega Nord. Fa parte di quello che si chiama «Maroni presidente». Non è l’unico caso, d’accordo. Pure il governatore delle Marche Gian Mario Spacca, per esempio, è iscritto al gruppo «Gian Mario Spacca presidente» anziché a quello del suo partito, il Pd. Ma questo non succede in Veneto né in Piemonte, dove Luca Zaia e Cota fanno regolarmente gruppo con gli altri leghisti del consiglio.
Per non parlare delle altre rogne politiche interne alla maggioranza che sostiene il governatore. La peggiore è senza dubbio la scissione del Pdl. Per 17 anni ininterrotti la Lega è stata qui al potere con Formigoni. Le cui truppe sono ancora agguerrite al punto da controllare con Romano Colozzi, suo fedelissimo decennale assessore al Bilancio, l’incarico nevralgico di segretario generale del consiglio regionale. Ma dopo la scissione del Popolo della libertà Formigoni si è schierato sul fronte opposto a Silvio Berlusconi. Di conseguenza anche il Pdl lombardo è insidiosamente spaccato in due. E la sorte vuole che Maroni si ritrovi adesso a guidare la Regione con un vice presidente berlusconiano doc, Mario Mantovani. Sul quale, peraltro, non si sono mai spente le polemiche innescate dall’opposizione. La causa, alcune faccende private. Le residenze sanitarie, intanto. Ex senatore ed ex sottosegretario berlusconiano, Mantovani è assessore regionale alla Salute mentre alla di lui famiglia fanno capo alcune fondazioni onlus che controllano undici strutture convenzionate con la Regione per un totale di 815 posti letto. C’è poi la storia del suo doppio incarico. Qualche mese fa, quando i giornali sottolinearono che manteneva l’incarico di sindaco di un paese dell’hinterland milanese, replicò seccato: «Il 4 luglio scorso, per l’incompatibilità tra le cariche di sindaco di Arconate e consigliere regionale, ho ufficialmente optato per quella di consigliere lasciando di fatto il ruolo di sindaco». Che cosa possa significare quel «di fatto», lo lasciamo giudicare ai lettori. Nel sito internet del suo Comune figura ancora come sindaco: circostanza che continua a far mormorare all’interno del consiglio regionale. Al pari di altre scelte.
Un caso? Mai si era visto prima un ex parlamentare ma soprattutto ex vicepresidente della Regione retrocesso dalla sera alla mattina al ruolo di segretario generale della giunta. Retrocesso si fa per dire: Andrea Gibelli era rimasto senza poltrona. Certo, prima dava ordini ai tecnici e ora invece, da «tecnico», li prende. Ma pur sempre con uno stipendio di 223 mila euro. E con quello che gli è capitato… L’affare di un immobile da ristrutturare e vendere a Lodi, nel quale si era imbarcato con alcuni amici leghisti, fra cui l’ex capogruppo al Comune già assistente di Antonio Marano al ministero delle Poste Davide Rovera e l’ex consigliere comunale Oscar Ceriani, si è rivelato un bagno di sangue. Fra crolli, imprevisti e interessi hanno già speso 470 mila euro più di quanto preventivato e addio guadagno. Meno male che c’è il nuovo lavoro. Anche se il confronto con il suo predecessore, il potentissimo braccio destro di Formigoni Nicola Maria Sanese, per quattro legislature deputato e quattro volte sottosegretario, lo fa impallidire.
Più a suo agio, al contrario, si trova un altro fedelissimo di Maroni: l’ex senatore Massimo Garavaglia. Il governatore l’ha nominato assessore all’Economia. Poi l’ha ricoperto di incarichi. Prima l’ha fatto presidente del consiglio di sorveglianza della Finlombarda, la finanziaria regionale, e di Lombardia Informatica. Quindi l’ha spedito nel consiglio di amministrazione della Cassa depositi e prestiti.
Alla testa del consiglio di gestione di Infrastrutture lombarde ha invece piazzato il suo amico Paolo Besozzi, ex vicepresidente della Milano Serravalle, insieme alla direttrice dell’assessorato Infrastrutture Anna Tavano: consorte dell’avvocato Domenico Aiello, legale che segue le cause intentate da Maroni contro Belsito.
Ma un posticino coi fiocchi l’ha avuto anche Patrizia Carrarini, titolare dell’agenzia che ha curato la campagna elettorale del governatore. Adesso è direttore generale per la comunicazione della Regione Lombardia: 180 mila euro annui. Compito arduo il suo, se è quello di far quadrare le parole.
Perché si tratta di intendersi. Evaporata quella Macroregione del Nord che avrebbe dovuto far tremare Roma, ora l’irriducibile Maroni ha deciso di puntare tutto sul progetto della grande «Euroregione alpina». «Sono la stessa cosa», va ripetendo. Anche se quello è un accordo fra le nostre otto regioni settentrionali e le regioni francesi, austriache, tedesche e svizzere dell’arco alpino, sulla base delle normative europee risalenti al 2006. Si dà infatti il caso che le Euroregioni siano uno strumento istituito ben sette anni fa da Bruxelles per favorire la gestione di alcune politiche comuni nelle aree di confine. Di quegli organismi cui già partecipano Regioni italiane, fra cui proprio Veneto e Piemonte, ce ne sono già ben cinque. E di trattenere il 75 per cento delle tasse lì non se n’è mai parlato.
Sergio Rizzo


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