La “Carta di Lampedusa”, tra memoria e azione concreta

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Dall’altra parte dello schermo di pc o tablet, 60 fra associazioni, avvocati, attivisti e comitati locali, dalla Sicilia al Trentino-Alto Adige.

L’assemblea è arrivata in un momento ricco di significati per l’agenda sociale e politica come per le condizioni di vita e ingresso di migliaia di migranti e delle loro famiglie. Sono passati due mesi dalla strage di Lampedusa, che ha visto 369 persone morire poco distanti dall’isola e nel momento in cui scrivo un’imbarcazione risulta in balia delle onde da oltre 20 ore, fra Malta e la costa ionica. Il 3 dicembre sotto Montecitorio attivisti e membri di organizzazioni nazionali e internazionali si sono dati appuntamento per chiedere l’istituzione del 3 ottobre come “Giorno della memoria e dell’accoglienza”, come proposto dalla sindaca lampedusana Giusy Niccolini. Appena due giorni prima sette persone, buona parte dei quali migranti non regolarizzati di cittadinanza cinese, sono morte per un incendio nella fabbrica di Prato in cui dormivano, mentre proprio il 29 novembre nei pressi di Rosarno moriva di freddo un rifugiato liberiano, arrivato nella zona per raccogliere arance. Storie individuali, o di piccoli gruppi smarrite in una storia collettiva poco raccontata e soprattutto poco ascoltata. Chi riesce a varcare da vivo le frontiere nazionali, diventa oggi facilmente un cittadino di seconda categoria, potenziale vittima di sfruttamento, di detenzione arbitraria, di leggi non applicate, applicate male o semplicemente ingiuste, di pratiche illegittime ma diffuse quando non istituzionalizzate. E’ dunque da qui, dalla constatazione, di un attacco ai diritti di cittadinanza e al diritto d’asilo, che è partito il percorso per costruire una “carta di Lampedusa”, documento che nasce dal basso per giungere a interrogare amministrazioni locali, nazionali e europee.

Giacomo Sferlazzo, dell’associazione lampedusana Askavusa, ha aperto l’assemblea con decisione, ricordando che “è da vent’anni che la nostra isola vive ciclicamente emergenze, seguite da tragedie, seguite a loro volta da interventi di tipo militare. Ma dal 2009 questo è cresciuto, da Lampedusa assistiamo alla militarizzazione del Mediterraneo, del mare come del cielo e della terra”. Una militarizzazione che, ribadiranno in molti, non si spiega con l’esigenza di tutela dei migranti, ma con la protezione di interessi geopolitici e con una politica securitaria che si nasconde dietro il dito dell’umanitarismo. Per Sferlazzo e per altri partecipanti “Lampedusa non deve diventare una passerella: se ci troveremo qui è per costruire qualcosa di concreto”. E’ proprio la preoccupazione della concretezza a attraversare tutto l’incontro, collegando idealmente città e esperienze geograficamente lontane. Grigion ha sottolineato come “il meeting di Lampedusa non dovrà essere in alcun modo celebrativo ma avere ben chiaro l’obiettivo di lavorare per uno spazio euromediterraneo dei diritti. Dopo il 3 ottobre le promesse di cambiamento sono rimaste parola vuota, le politiche sono le stesse di prima. Ma il cambiamento deve avere spazio”.

Due le domande, e molteplici le risposte. Cosa vuole essere la Carta di Lampedusa? E che contenuto vogliamo darle? La suggestione di Paolo Cognini, avvocato marchigiano da anni impegnato per i diritti dei migranti, trova diversi consensi. “La Carta può diventare una fonte di diritto altro, di diritto nato dal basso”. “Oggi nello spazio europeo – ha chiarito Cognini – ci sono dispositivi di potere e controllo che saltano la mediazione del diritti, vediamo il progetto Mare Nostrum, costruito in un contesto di assenza di regole, di regole auto assegnate. Abbiamo lasciato spazio per idee e pratiche come la schiavitù, la così detta detenzione amministrativa: dobbiamo pensare a un nuovo spazio basato sui diritti”. Una carta dunque come enunciato di diritti, ma anche come rete attiva, come manifesto che vincoli chi lo sottoscrive, come pungolo per le amministrazioni europee e di tutto il Mediterraneo. In cui convergano temi diversi, raccontati attraverso la lente di esperienze concrete. Alfonso di Stefano, voce della Rete antirazzista di Catania, è partito dalle battaglie contro la militarizzazione della Sicilia e la ghettizzazione dei rifugiati a Mineo, il maxi “residence” in provincia di Catania che ospita oggi 4000 persone, dall’invenzione di centri di identificazione aperti ad hoc per migranti, molti dei quali siriani, dalle fotoidentificazioni a bordo delle navi militari, senza reali garanzie. “Addirittura – ha spiegato – “diversi siriani hanno detto che i militari italiani della nave Chimera gli hanno sottratto soldi e gioielli”. Sergio Bontempelli dell’associazione Africa Insieme di Pisa ha insistito sulla “burocrazia del disprezzo” che investe le vite dei migranti, rendendoli maggiormente vulnerabili e al contempo criminalizzandoli agli occhi dell’opinione pubblica. Stefano Galieni, giornalista di Corriere delle Migrazioni e di altre testate, ha ricordato l’istituzione di una nuova agenzia di polizia per il monitoraggio delle frontiere fra Europa e Libia, EUBAM Libia, la cui costosa entrata in vigore dal 1° dicembre getta un’ombra inquietante sui destini dei migranti in transito per la Libia, paese insicuro, non aderente alle principali convezioni internazionali su asilo e migrazioni e noto per la persecuzione degli stranieri di pelle nera. Molteplici dunque le esperienze di denuncia e partecipazione sociale a livello locale, gran parte delle quali convergenti verso alcuni punti fermi: dire no a pratiche, idee e legislazioni sbagliate per amplificare ciò che di positivo esiste e lavorare a una sicurezza reale, che tuteli i migranti, che non discrimini, che non ceda a terzi l’onere di intercettare persone in arrivo via mare per salvarle e valutarne la situazione, che non si nasconda dietro l’alibi dell’Europa e dei trafficanti per giustificare tragedie annunciate. Inevitabilmente fra tanti temi è risultato difficile sintetizzare, ma sono senza dubbio centrali il diritto d’asilo, “illuminato” dal recente annuncio di un dibattito parlamentare sulla tanto rinviata – dal 1948 – legge italiana in materia, dunque l’accoglienza dei rifugiati e la presenza el’integrazione dei migranti in generale e le norme che la regolano. Il tutto in un contesto di attacco al principio di cittadinanza, evidenziato da più parti, in cui la frontiera stessa diventa un discrimine, capace di segnare le vite delle persone, moltiplicando la sofferenza della migrazione e il suo perpetuarsi di generazione in generazione, che si riesca o meno a superarne la linea geografica.

Dal 31 gennaio al 2 febbraio a Lampedusa si raduneranno in silenzio attivisti, membri di organizzazioni, migranti per dare concretezza e respiro a parole viaggiate sul web o nelle nostre città. Fino a allora chi vorrà partecipare potrà registrarsi tramite Melting Pot e condividere on line contenuti e proposte. A Lampedusa si andrà per raccontare un Europa e un Mediterraneo fatti di creatività, diritti, partecipazione.. Perché “Lampedusa – ha detto Galieni – diventi il volano per fare vedere la ruggine che c’è anche nelle nostre città”. E non ultimo per provare a ridare dignità a un’isola affaticata.

Mia Lecomte, poetessa e ricercatrice, spiega così la frontiera, in “Lezioni Salentine”: 

“Se volessi a questo punto spiegare:
 si sta fra due mari, è già noto, ma non
 come scissi o appena lambiti nei margini, 
 si sta come stare davvero nel mezzo
 del senso più profondo di stare tra due mari
 consapevoli delle rocce che squarciano spiagge
 della luce che finisce più presto più tarda
 del freddo dentro e fuori la grotta già caldo”

 Un senso di separazione, di sospensione fra universi non comunicanti, che deve cessare, perché il nostro diventi un unico mare. Lampedusa potrà così tornare a occuparsi dei suoi problemi e ogni migrante potrà cercare più serenamente il difficile equilibrio di una vita lontana da casa.

Giacomo Zandonini


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