LE CICATRICI DELLA STORIA

by Sergio Segio | 8 Dicembre 2013 8:30

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Ed è altrettanto ovvio che il Giappone provi un forte nervosismo di fronte alla prospettiva di diventare una sorta di Stato vassallo (condizione alla quale i coreani sono più abituati).
L’asservimento agli Usa, che il Giappone dovette subire a partire dal 1945, era l’inevitabile conseguenza di una guerra catastrofica, e in quanto tale la maggior parte dei giapponesi era disposta ad accettarlo. La sottomissione alla Cina sarebbe, invece, intollerabile.
Tuttavia, poiché la politica nell’Asia orientale è ancora fortemente improntata a un modello dinastico, una spiegazione biografica potrebbe essere assai utile. Abe Shinzo, il primo ministro giapponese, è nipote di Kishi Nobusuke, che in tempo di guerra fu uno dei burocrati industriali più in vista del Giappone; imprigionato dagli americani nel 1945 come criminale di guerra, fu rilasciato senza processo agli inizi della guerra fredda, ed eletto come primo ministro conservatore nel 1957.
Negli anni Trenta e Quaranta, Kishi era un nazionalista con propensioni fasciste. Dopo la guerra, la sua profonda avversione per il comunismo fece di lui un devoto alleato degli Stati Uniti; Richard Nixon era un suo caro amico. Kishi tentò sino all’ultimo di riscrivere la Costituzione pacifista giapponese, stilata dagli americani all’indomani la guerra, e trasformare di nuovo il Giappone in una fiera potenza militare. I suoi sforzi, tuttavia, rimasero vani.
Il più grande desiderio del primo ministro Abe è di completare il progetto nel quale suo nonno ha fallito: eliminare il pacifismo costituzionale e glissare sui crimini di guerra compiuti all’epoca di Kishi, rimanendo al tempo stesso un alleato degli Usa contro la Cina. In quanto nazionalista di destra, Abe si sente obbligato — anche solo retoricamente, per ora — ad opporre resistenza all’egemonia della Cina.
Durante la guerra fredda uno dei principali alleati di Kishi — a parte Nixon — era il dittatore sudcoreano: il presidente Park Chung-hee. Anche lui durante la guerra aveva svolto un ruolo dubbio: con il nome giapponese di Takagi Masao, Park aveva infatti prestato servizio come ufficiale nell’esercito imperiale giapponese. Si era diplomato presso un’accademia militare della Manciuria, dove Kishi un tempo era stato a capo di un impero industriale basato sullo sfruttamento della mano d’opera di schiavi cinesi.
Anche Park era un nazionalista, ma a parte i suoi legami sentimentali con il Giappone, che risalivano ai tempi della guerra, il suo anti-comunismo sarebbe stato un incentivo sufficiente a mantenere un rapporto cordiale con la nazione che per mezzo secolo aveva brutalmente colonizzato la Corea. L’attuale presidente sudcoreano Park Geunhye è sua figlia.
Park Geun-hye adorava il padre almeno quanto Abe amava il proprio nonno, anche se il suo retaggio dinastico ha sortito un effetto opposto rispetto a quello ottenuto da Abe. Per essere considerata una nazionalista coreana, Park Geun-hye oggi deve prendere le distanze da alcune delle amicizie politiche del padre, e in particolare dal suo legame con il Giappone. Come sulla maggioranza della vecchia élite conservatrice, anche su Park Chung-hee (a cui molti sudcoreani riconoscono ancora oggi il merito di aver riscostruito la nazione dalle rovine della guerra) grava l’ombra del collaborazionismo di guerra. Per evitare di vedersi affibbiare le colpe del passato coloniale del padre, Park Geun-hye è quindi costretta ad affrontare il Giappone riguardo alle dispute territoriali, anche a rischio di prendere le parti della Cina.
Il caso dell’attuale leader cinese, Xi Jinping, è forse il più complicato dei tre. Suo padre, Xi Zhongxun, era uno dei principali leader della rivoluzione comunista; oltre ad essere uno dei capi della guerriglia nella guerra contro il Giappone, aiutò a sconfiggere i nazionalisti di Chiang Kai-shek durante la guerra civile cinese. In seguito divenne membro del Comitato centrale del partito, direttore della propaganda, vicepremier e governatore del Guangdong.
Un’impeccabile carriera comunista, si potrebbe pensare. Suo figlio non dovrebbe dunque tentare di prendere le distanze da lui, o desiderare di portare a compimento delle ambizioni frustrate. Eppure, anche il nazionalismo di Xi Jinping ha una storia.
Il principale obiettivo del presidente Mao era quello di consolidare la sua rivoluzione in patria. Le sue credenziali di nazionalista erano talmente solide da permettergli di mantenere un atteggiamento relativamente morbido con i nemici di un tempo. Le dispute territoriali attorno a delle isole di nessuna importanza potevano essere messe da parte. Non si preoccupò nemmeno di rivendicare Hong Kong di fronte ai britannici.
Fu solo quando Deng Xiaoping aprì la porta agli scambi commerciali con le nazioni comuniste che in Cina i sentimenti anti-giapponesi furono deliberatamente fomentati. Né il marxismo, né il maoismo potevano essere usati per giustificare il fatto che la Cina si stesse unendo al mondo capitalista. Il nuovo corso causò un vuoto ideologico che fu presto riempito dal nazionalismo di vecchio stampo. Più la leadership apriva l’economia cinese, più rinfocolava la rabbia popolare contro i torti del passato, in particolare quelli commessi dal Giappone.
Colui al quale si riconosce la maggiore responsabilità per la politica della “porta aperta” di Deng non era altri che il padre di Xi: XiZhongxun. Comunista pragmatico, era stato oggetto di diverse purghe durante il regime di Mao, quando individui relativamente moderati venivano spesso denunciati come controrivoluzionari. Suo figlio, Jinping, sembra seguire la stessa tradizione pragmatica di apertura agli scambi commerciali con il mondo. Ecco perché anche lui, al pari dei riformatori di Deng Xiaoping, deve dare prova delle proprie credenziali nazionalistiche prendendo posizione contro il Giappone e affermando il predominio cinese nell’Asia orientale.
Né Xi, né Abe, né Park desiderano realmente una guerra. Le loro pose ostentate sono a beneficio dei loro rispettivi popoli. Uno dei motivi che gli permettono di adottare questa pericolosa politica del rischio calcolato è dato dalla continua presenza degli Usa nella regione, nei panni di polizia militare. Le forze armate Usa fanno da cuscinetto tra le due Coree, e tra la Cina e il Giappone.
La presenza degli Usa permette alle potenze rivali dell’Asia orientale di agire in maniera irresponsabile. L’unica cosa che potrebbe cambiare il loro comportamento sarebbe il ritiro delle forze militari Usa. Poiché a quel punto i tre Paesi dovrebbero vedersela da soli, gli uni con gli altri.
Tuttavia, dal momento che gli americani non stanno ancora prendendo in considerazione una simile eventualità, considerata dagli americani, dai giapponesi, dai coreani e probabilmente persino dai cinesi come un rischio eccessivo, è probabile che lo status quo si protragga, il che significa che l’agitazione riguardo al mare cinese orientale è lungi dal concludersi.
(Traduzione di Marzia Porta)

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