L’ultima battaglia di Okinawa dopo 70 anni dietrofront dei marines

by Sergio Segio | 28 Dicembre 2013 9:09

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WASHINGTON — Sono stati confinati in un lembo di quella terra che i Marines credettero di avere conquistato con il loro sangue. Se furono necessari ottantadue giorni e 230 mila morti perché i Marines conquistassero l’isola di Okinawa, ci sono voluti quasi 70 anni perché fossero costretti a ritirarsi per la prima volta in un angolo dell’isola che tante vite pretese. Non sono ancora stati buttati fuori da Okinawa, i figli e i nipoti di quei soldati americani che combatterono nelle sue colline fangose di terra e di sangue la più feroce battaglia della Seconda Guerra Mondiale, ma la lentissima, paziente, incruenta rivincita dei figli del Tenno è cominciata.
Quel «tifone di acciaio» come i morituri al comando del generale giapponese Mitsuro Ushijima battezzarono il diluvio di proiettili e bombe piovuto per quasi tre mesi sulle loro teste è diventato negli anni il vento di protesta e di rivolta antiamericana che oggi ha convinto il governatore della provincia di Okinawa e il governo di Tokyo ad accettare la mezza ritirata proposta da Washington: la chiusura della immensa base aerea di Futenma, piantata con i suoi 18 mila addetti nel cuore geografico dell’isola e il suo spostamento in un angolo remoto e poco abitato. Per la nuova pista, il Pentagono dovrà recuperare terra al mare, spingendo tonnellate di materiale da riporto in acqua, un progetto di ingegneria che ha il sapore di un simbolo. I Marines resteranno aggrappati al predellino dell’isola che avevano conquistato con il loro più grande sacrificio.
Neppure questa cacciata sul predellino della superpotenza che aveva spezzato, proprio a Okinawa, la resistenza dell’Impero del Sole, ha soddisfatto gli isolani e il numero sempre più alto di giapponese insofferenti della ancora massiccia presenza USA sul loro arcipelago. Il Giappone resta la chiave di volta del sistema aereonavale americano nel Pacifico occidentale, ora che sono state abbandonate le basi nelle Filippine e la presenza militare in Corea del Sud, sul 38esimo parallelo, si riduce anno dopo anno. Lo sanno i cinesi, i rivali che hanno già cominciato a sfidare l’egemonia Usa su quel cruciale spicchio di mondo. E lo sa il governo di Tokyo, che proprio in questi giorni ha sfidato i rimorsi e rincuorato i nazionalisti, con la visita del premier Shinzo Abe al tempio di Yasukuni, eretto alla memoria anche di coloro che il resto dell’Asia, e del mondo, ha giudicato come criminali di guerra.
Okinawa torna dunque a essere uno snodo — per ora soltanto simbolico — della storia contemporanea. Lo sbarco e la battaglia per conquistarla fu, insieme con la Marna e Verdun, con El Alamein e Stalingrado, con Pearl Harbor, la Normandia e Diem Bien Phu, un luogo dove la storia bellica, e quindi politica, del XX secolo, cambiò direzione. Per sloggiare i soldati tutti votati alla gloriosa morte del generale Ushijima, gli Alleati schierarono una flotta che comprendeva, oltre a ogni altro tipo di unità navale immaginabile, cinquanta portaerei.
Metro dopo metro, alla velocità media di 50 metri e tremila morti civili e militari al giorno, le sette divisioni di fanteria e di fanti di Marina alleati riuscirono a eliminare, spesso uno per uno, i difensori rintanati nelle grotte e nei tunnel sotterranei, fino all’immancabile «seppuku» al suicidio rituale del generale sconfitto, mentre gli ultimi kamikaze lanciati contro la flotta precipitavano in acqua nel loro inutile sacrificio. Poche centinaia di giapponesi si arresero senza suicidarsi, evento straordinario nel mattatoio della Guerra nel Pacifico, ma furono migliaia i civili che si tolsero la vita. I 150 mila non combattenti morti, insieme con 78 mila soldati imperiali e 14 mila americani, saranno un totale di vittime più alto di quelle consumate dalla Bomba di Hiroshima nei primi giorni, calcolate in 140 mila.
Ma l’effetto della carneficina di Okinawa fu quello che, poche settimane più tardi si sarebbe visto alzarsi dalle rovine carbonizzate e radioattive di Hiroshima e Nagasaki. La furibonda resistenza delle truppe regolari e la guerriglia dei civili alle spalle dei Marines e dei fanti, condotte senza illusioni di vittoria, ma soltanto per infliggere all’invasore il massimo di perdite, contribuì a convincere gli alti comandi Usa e il Presidente Truman a rinunciare allo sbarco nell’isola principale del Giappone e a giocare la carta, allora segreta e devastante, di «Fat Ma» e «Little Boy», del ciccione e del ragazzino, le due prime bombe atomiche. Per trent’anni, Okinawa rimase sotto il tacco dei vincitori che le restituirono la sovranità e l’auto amministrazione soltanto negli anni 70. Ma le due grandi basi americane, quella navale di Kadena e quella aerea di Futenma continuarono a occupare un quinto del territorio dell’isola, arrivando a ospitare 80 mila soldati, aviatori e marinai negli anni del Vietnam. Una presenza che inesorabilmente avrebbe portato a proteste, scontri, violenze. Nel 1995, tre militari Usa rapirono, imbavagliarono e violentarono una scolaretta di 12 anni. La popolazione dell’isola insorse e le protesta raggiunsero lo zenith quando sembrò che le autorità militari Usa non volessero concedere i tre alla giustizia giapponese e fossero liberi di passeggiare all’interno della base, mangiando «hamburger» in un fast food. Furono condannati finalmente a sette anni, in prigioni giapponesi, nelle quali uno di loro disse di essere stato trattato come «uno schiavo ai lavori forzati». Un’accusa che impressionò favorevolmente sia l’opinione pubblica nipponica che quella americana.
Quello stupro, innominabilmente odioso, e molte altre accuse mai definitivamente provate, furono l’inizio della fine in un rapporto che non era mai stato amichevole, fra gli abitanti e gli eredi dei vincitori. Per 17 anni, dal giorno di quel reato, le trattative sono andate avanti, con minacce di secessione da parte degli abitanti e ora con la decisione di confinare i Marines in un lembo di terra di nessuna. Una discarica dentro quell’oceano dal quale arrivarono come trionfatori.

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