RESTITUIRE AI CITTADINI IL PIACERE DI CONTARE

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E questa forbice taglia alla gola il futuro, dopo aver reciso ogni venerazione del passato. Da qui l’attesa di un Messia, di un salvatore che come Mosè ci guidi nella nostra traversata. C’è voglia d’un Capo, insomma. C’è il bisogno largamente percepito di un leader carismatico, la cui energia supplisca alle nostre energie sfiancate dalla crisi. Lo ha scritto Galli della Loggia (Corriere, 17 dicembre), l’ha ribadito Eugenio Scalfari (Repubblica, 22 dicembre). L’uno con fiducia, l’altro con preoccupazione. Però sull’analisi hanno ragione entrambi, e d’altronde ne aveva già discusso Sigmund Freud: l’insicurezza alleva la concentrazione del potere, anche a scapito delle nostre libertà.
Ma ha solo quest’impronta lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi? Dopotutto la politica, da Pericle in poi, si è sempre incarnata in un leader solitario. E dopotutto di capi e caporali, nel ventennio della seconda Repubblica, ne abbiamo masticati fino a consumarci le mandibole: in primo luogo Berlusconi, ma poi D’Alema, Fini, Bossi, Casini, Bertinotti. Che cosa li ha resi tanto diversi dai Berlinguer o De Gasperi che li precedettero? Intanto un fallimento nelle politiche economiche, visto che ci hanno lasciato in bancarotta. Ma forse anche un deficit di sincerità, d’austerità nei costumi pubblici e privati, d’interesse per qualcosa di distinto dall’interesse di partito. Sgorga da qui il discredito che li ha seppelliti l’uno dopo l’altro. E a sua volta il discredito genera l’urgenza d’incontrare un leader credibile, creduto. Mica facile, anche perché gli italiani non sono più troppo creduloni.
Ecco, è esattamente questo il fronte che si para davanti alla prossima leadership. Ed è questo lo spirito profondo del tempo in cui nuotiamo: il ritiro della delega. Niente più fiducia ad occhi chiusi nel deputato, nel ministro, nel consigliere regionale. Scarso rispetto per le istituzioni, e non è certo una buona notizia. Però, al contempo, il desiderio di contare, di sostituire la voce dell’elettore a quella dell’eletto. D’ottenere in sorte più democrazia, se è vero che in democrazia la sovranità spetta al popolo votante, non al popolo votato. E almeno questa può ben essere una lieta novella. D’altronde succede in tutto il mondo, e infatti i Parlamenti sono ovunque in declino, mentre cresce la domanda di democrazia diretta. Sicché il nuovo leader dovrà giocoforza intercettarla, e darle fiato, e tradurla in nuove istituzioni.
Il lavoro da fare, diciamo, non gli manca. Le prime cinque cariche dello Stato sono altrettanti presidenti: della Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio, della Corte costituzionale. Bene, noi non ne eleggiamo neanche uno, non siamo ammessi al gioco in questi giochi di Palazzo. Ma non possiamo neppure revocarli, non possiamo licenziare anzitempo l’eletto immeritevole, giacché il Recall non ha cittadinanza alle nostre latitudini. Non abbiamo il potere di scrivere le leggi, dato che l’iniziativa popolare non è che una supplica al sovrano, e dato che il referendum propositivo costituisce l’ennesimo tabù, vietato pronunziarne il nome. Non decidiamo sulle grandi opere, dalla Tav al ponte sullo stretto di Messina, come viceversa accade in molte altre contrade. Insomma non possiamo fare un tubo, però ci tocca pagare le tasse sul tubo. E sono tasse al cubo.


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