“Trattati come macchine all’autolavaggio urlavano di spogliarci e ci deridevano”

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«COME ebrei… quelli dei film dei nazisti neilager!». Pure in quel suo italiano minimo impastato di qualche termine straniero, si intuisce facilmente cosa c’è nella testa di Ahmed quando ricorda il “lavaggio”, l’estrema umiliazione consumatasi sulla pelle dei profughi nel piazzale davanti al padiglione bruciato del Centro di prima accoglienza di Lampedusa.
Lui, siriano, è uno di quelli là, gli immigrati nudi e infradiciati del video trasmesso lunedì sera dalTg2.Il 13 dicembre faceva la fila con gli altri, come gli altri non si sentiva più le mani e i piedi per colpa del freddo, con i capelli zuppi di acqua gelida. E non capiva. «Ridevano — racconta al telefonino che una fonte di Repubblica è riuscita a passargli dentro il Centro — ci gridavano qualcosa, ci hanno fatto spogliare perché loro non si avvicinavano, avevano paura della scabbia». Loro sono gli operatori della cooperativa “Lampedusa accoglienza” che ha in gestione il Cpsa. Nomen non omen, a giudicare da quel trattamento sanitario così vergognoso e difficile da giustificare.
«Scaricavano acqua fortissima sui nostri corpi — continua Ahmed, che nasconde il suo vero nome per paura di rappresaglie — ci faceva male». Dolore fuori. E dentro. «Tutti nudi, uno accanto all’altro. Provavo grande imbarazzo. È stato terribile… perché ci hanno trattato come macchine all’autolavaggio?». La sua domanda rimane appesa, Ahmed chiude la comunicazione e torna a riposarsi sul suo materasso lercio buttato a terra sotto la tenda fatta con le coperte termiche. È “guarito”, la scabbia non c’è più. Ma al Centro l’aria è ancora irrespirabile.
Da tre giorni Kahlid ha paura delle ombre. È il ragazzo siriano autore del filmato girato con uno smartphone dalla collinetta sopra il piazzale e consegnato al “Comitato 3 ottobre”. Una data, quella, che ha inciso nell’anima: ilgiorno in cui è arrivato a Lampedusa. E da lì non si è più mosso. «Sono stato minacciato da quattro operatori della cooperativa — denuncia — mi hanno detto “ti rompiamo il culo”, “se esci da qui ti ammazziamo”». Temono guai, rischiano il licenziamento. «Da ieri non mi danno più da mangiare, né da bere, né sigarette. Io volevo solo dimostrare i maltrattamenti che subiamo». Sono quasi 70 giorni che sta nel Centro, in attesa di essere sentito dal magistrato per il riconoscimento dello scafista che lo ha portato in Italia. «Le condizioni igieniche sono inumane, non abbiamo coperte, siamo ammassati uno sull’altro, i bagni non funzionano». Ore di imbarazzo per chi quel Cpsa è stato chiamato a gestire e oggi sitrova sotto accusa.
La Cooperativa “Lampedusa Accoglienza” appartiene al Gruppo Sisifo, che ha una serie di imprese della Lega Coop. Nel 2012, come documenta una recente inchiesta dell’Espresso, ha ricevuto dallo Stato 3 milioni e 116 mila euro e incassa da 30 a 50 euro per ogni profugo ospitato per ogni giorno di assistenza. Eppure làdentro gli immigrati mangiano e dormono per terra, si diffondono epidemie di pidocchi e scabbia, i bagni sono inguardabili, cani randagi urinano sugli zaini. Si vive nella promiscuità. «Ci sarebbe uno spazio dedicato a donne e bambini al quarto piano di una delle palazzina — spiega Raffaela Milano, di Save the Children — ma ci dormono anche gli uomini perché non trovano altri spazi». In queste condizioni, nessuno si stupisce che si diffonda la scabbia. Così come nessuno crede davvero che la disinfestazione con le pompe d’acqua all’aperto sia soltanto un episodio. «Ci risulta che sia stato fatto altre volte in passato», dice Raffaela.
Come vengono spesi i soldi che arrivano dallo Stato? Anche di questo dovrà rendere conto l’amministratore delegato di “Lampedusa Accoglienza”, Cono Galipò, oltre che del “lavaggio” di massa in piazza. Il vescovo di Monreale, monsignor Francesco Pennisi, una spiegazione se l’è già data. «C’è chi approfitta delle sventure altrui per fare affari. Al Cara di Mineo nel cosiddetto “villaggio della solidarietà” ci sono imprenditori del Nord, cooperative legate a politici, fornitori di servizi. Così i centri di accoglienza rischiano di diventare “affari di stato”».


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