Uno sfibrante «tira e molla»

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La verità amara è che senza una reazione immediata, l’ambizione di Enrico Letta di «tenere» potrebbe rivelarsi illusoria. Rischia di offrire non solo pretesti ma buoni argomenti a quanti teorizzano una maggioranza sempre più vicina al capolinea; e additano le urne non come esito disastroso dell’impotenza del sistema, ma come paracadute contro una deriva pasticciona.
Prima il tira e molla sulle buste paga degli insegnanti; ieri la bocciatura in commissione al Senato del cosiddetto decreto salva Roma, ripescato poi in extremis in aula. E sullo sfondo, da mesi, la tormentata e caotica vicenda delle tasse sulla casa, oltre ad altre sbavature minori. Non è dato sapere se il caos dipenda da responsabilità individuali dei ministri, o da una fragilità politica oggettiva, che si è accentuata nelle ultime settimane. In realtà doveva e dovrebbe essere il contrario. Il governo Letta, in carica dal 27 aprile, ha ricevuto una fiducia l’11 dicembre scorso. E si è proiettato nel 2014 con una coalizione più coesa.
Ha come principale alleato non più un Silvio Berlusconi ritenuto infido e indigesto dal Pd, e decaduto da senatore il 27 novembre scorso. Ad appoggiarlo è la costola moderata dell’ex Pdl, guidata dal vicepremier, Angelino Alfano. Anche la tesi secondo la quale i problemi nascono dal protagonismo del nuovo segretario dei Democratici, Matteo Renzi, in carica da meno di un mese, convince relativamente: almeno rispetto agli scivoloni di cui il governo è stato protagonista negli ultimi giorni. Il malessere è dentro, non solo fuori. Si indovinano difetti di comunicazione e di coordinamento; e un minimalismo che può diventare un limite grave.
Per l’opposizione è obbligatorio dare la coalizione per liquidata, sebbene nessuno sia in grado di dire che cosa accadrebbe dopo: perfino in caso di elezioni anticipate presentate come salvifiche. Lo scenario probabile è che in una campagna elettorale abbinata alle europee crescerebbe l’ipoteca dei «Tea Party» italiani, membri del club delle forze ostili all’Europa e in ascesa dovunque. Si radicalizzerebbe la polemica contro un Parlamento ritenuto delegittimato dalla sentenza della Consulta contro il sistema di voto. E verrebbero esasperate le conseguenze di una crisi economica che in Italia morde l’occupazione ma tende a recuperare altrove: il calo dello spread non va sottovalutato.
D’altronde, sulla riforma elettorale si allineano i «modelli» più diversi, senza che si riesca ancora a capire se e dove i partiti troveranno un accordo. E questo rende la prospettiva di un’interruzione della legislatura ancora più opinabile: nel senso che nessuno è in grado di garantire una futura stabilità, perché le opzioni rimangono confuse. Non basta, però, additare il pericolo delle scorciatoie né sottolineare l’irresponsabilità di chi persegue la rottura, se l’esecutivo non si mostra in grado di lavorare in modo credibile e coerente. Oltre a chiedere agli alleati impegni per il 2014, forse farebbe bene a radunare le idee; individuare quello che non funziona; e ripararlo in fretta. Altrimenti, del logoramento potrà dare la colpa solo a se stesso.


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Stufi di prendere sberle, svolta o crisi, ora sì che ci sentiranno. Possono raccontarsela come meglio credono, i capetti del Carroccio, ma l’acqua del Dio Po comincia a prosciugarsi. Vi stagnano una manciata di decreti attuativi del federalismo fiscale e qualche miseradependance ministeriale di Roma ladrona. Robetta. E comunque troppo poco per ammansire una base nervosa e scalpitante, che quest’anno si è dovuta sorbire di tutto: le marachelle del premier, l’emorragia di voti, il balbettio dei propri leader su amministrative e referendum e pure la retorica patriottarda del centocinquantesimo dell’unità  d’Italia.

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