La giungla delle società in mano pubblica Oltre 7mila spa, perdono 2,2 miliardi

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PER la precisione, sempre che essa non sia una chimera in questo campo, sono 7.340 le società di cui risultano azionisti ministeri, enti locali, enti pubblici di previdenza, l’Automobile Club d’Italia, le case di riposo o varie altre articolazioni dello Stato. Una selva inestricabile di 30.133 «legami», come il Tesoro chiama pudicamente le partecipazioni dirette e indirette.

QUELLE che fanno dello Stato italiano allo stesso tempo uno dei più indebitati al mondo e fra i più presenti nei gangli di una delle economie che, per inciso, resta fra
le più incapaci di crescere.
Forse non è un caso se le tre qualità — Stato azionista di migliaia di imprese, alto debito e bassa crescita — convivono nello stesso Paese. Ma ora il Tesoro cerca se non altro di capire qualcosa di più in questa nebulosa. Ieri ha pubblicato il primo rapporto mai visto in Italia — meglio tardi che mai — sulle partecipazioni detenute dalle amministrazioni, i loro guadagni e soprattutto le perdite di esercizio da 2,2 miliardi di euro l’anno. E qualunque siano i dettagli di ciò l’indagine ha scoperto, essa pone prima di tutto una questione di buon senso. Perché se una holding privata vedesse che un terzo delle società di cui essa è azionista viaggia in rosso e che quelle perdite sono così pesanti da portare in rosso il saldo totale, le opzioni sarebbero chiare: vendere, oppure ristrutturare al più presto le imprese in perdita per arrestare l’emorragia; la terza ipotesi, fingere di non vedere perché così conviene a qualche manager corrotto, non atterrerebbe neppure sul tavolo.
Il problema con le 7340 società partecipate dalle amministrazioni italiane è che il più delle volte, finora, si è imboccato quest’ultima strada. Ora il ministero dell’Economia cerca di mettere ordine almeno mentale perché, dichiara, «la gestione efficiente del patrimonio pubblico può giocare un ruolo importante per il contenimento del deficit e la riduzione del debito pubblico». La strada da fare è lunga, ma non impossibile a leggere il censimento pubblicato ieri dal Tesoro. È stato un lavoro complesso perché solo i Comuni italiani dichiarano l’esorbitante cifra di 29.583 partecipazioni dirette e indirette che, spesso, si accavallano fra loro nelle stesse imprese: in tutto le giunte cittadine sono presenti in circa 5.000 società. L’Automobil Club d’Italia dice di avere molte più partecipazioni di qualunque fondo d’investimento italiano, a quota 153 imprese. Le università italiane sono socie dirette e indirette di uno sconfinato arcipelago di 1,562 imprese. Con buona pace di chi vuole abolirle, le Provincie vantano ben 2679 «legami» azionari con aziende che operano in Italia. E le Regioni ne hanno oltre cinquecento, quasi che i governatori di giunta fossero il consiglio d’amministrazione di un gigante del private equity globale come Blackstone o Pai. Tra i settori, c’è un po’ di tutto: classiche società di rete nei rifiuti, nell’acqua o nei trasporti, ma anche costruzioni (ben 365 partecipate pubbliche) o «servizi d’informazione e comunicazione » (249).
Peccato che questa giungla di interessi alla resa dei conti risulti perfettamente in rosso. I dati sono aggiornati all’esercizio 2011, ma è molto probabile che quelli del 2012 e 2013 presentino risultati simili o peggiori, visto l’andamento dell’economia. Viene fuori così che solo per le società partecipate dalle amministrazioni locali, la galassia del cosiddetto socialismo municipale, i benefici non compensino le perdite. Le società in utile risultano 2.879 (il 47% del totale), quelle in pareggio 1.249 e quelle in rosso solo il 31%, cioè circa duemila. Ma la voragine che queste ultime creano, 2,2 miliardi di euro solo nel 2011, è tale da azzerare e oltre l’utile da 1,4 delle imprese con andamento positivo.
I dati sui saldi, naturalmente, si riferiscono alla parte dei margini in capo alle pubbliche amministrazioni in base alle loro quote. E un esame attento da parte del Tesoro rivela che i buchi di bilancio delle ex municipalizzate è fortemente concentrato in poche imprese. Appena 23 società fra le duemila in rosso provocano perdite per oltre un miliardo e mezzo. Solo quattro holding delle giunte locali (ma il Tesoro si guarda bene dal fare nomi) pesano per quasi mezzo miliardo di euro. Un’unica società
a partecipazione pubblica locale nel settore «finanziario e assicurativo» presenta un’emorragia di cassa da 258 milioni. E quattro municipalizzate del gas e della luce bruciano quasi 400 milioni. Non è chiaro poi perché le amministrazioni locali d’Italia debbano continuare a giocare un ruolo da azioniste con 93 aziende nel settore «agricoltura, silvicoltura e pesca» (dove peraltro perdono 244 mila euro).
In Grecia, la decisione di integrare nel bilancio dello Stato le perdite delle partecipate portò nel 2010 una forte correzione al rialzo del deficit. Fu una dolorosa operazione-verità. In Italia il peggioramento dei conti non sarebbe così drastico. Ma individuare la rete di partecipazioni in rosso utili a nutrire le clientele locali e a distribuire le prebende della politica è stato almeno un primo passo. Ora le carte sono sul tavolo: far finta di non sapere non è più un’opzione.


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