La nube ora contagia Europa e Usa così la Cina esporta anche lo smog

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PECHINO. La Cina non esporta solo gli oggetti del desiderio del consumismo mondiale. Esporta ormai anche l’inquinamento della grande delocalizzazione industriale, globalizzando per la prima volta gli effetti drammatici delle emissioni tossiche nazionali. L’Occidente, oltre alle merci, importa anche lo smog che sperava di aver esternalizzato in Oriente e i veleni lanciati nell’atmosfera tornano come un boomerang assieme ai beni prodotti nei Paesi costretti ad accettare la violazione sistematica delle norme di tutela della salute. A rivelare la proporzione diretta tra la fuga del lavoro e il ritorno dell’inquinamento in Europa e Usa, due rapporti di Nazione Unite e “World Resources Institute”, che analizzano le illusorie distorsioni dell’«outsourcing delle emissioni».
Tre le conclusioni più importanti. Sostanze tossiche emesse dalle industrie in Cina sono state rilevate nelle regioni occidentali degli Stati Uniti, ma anche in Giappone, Corea del Sud, Russia ed Europa. Le multinazionali straniere sono responsabili di quasi un quarto dell’inquinamento che sta distruggendo la Cina. Elementi velenosi come polveri sottili e ossido di carbonio, fino ad oggi misurati in Cina solo al livello del suolo, per la prima volta sono stati infine trovati anche nello spazio. La concentrazione dei residui produttivi nell’atmosfera cinese è tale che l’inquinamento, spinto da venti occidentali sempre più forti, segue ormai le stesse rotte delle merci, trasformando l’antica «Via della seta» nella contemporanea «Via dello smog». «Se consideriamo solo i dati nazionali per misurare la tendenza delle emissioni – ha detto la climatologa Cyntia Cummis – non possiamo più vedere il quadro completo dell’impatto di uno Stato. Oggi è necessario valutare l’intero ciclo di vita di beni e servizi acquistati e venduti».
Il dato essenziale è che la delocalizzazione delle multinazionali, che nelle regioni mondiali a basso costo del lavoro non si limitano più ad assemblare prodotti, ma trasferiscono tutto il processo industriale, è responsabile dell’esternalizzazione senza precedenti sia delle emissioni tossiche che del consumo delle risorse naturali. La Cina è il primo inquinatore mondiale, il primo consumatore di energia e il primo esportatore di merci: dietro a tali primati si nascondono però altre potenze industriali, come Usa, Europa, Giappone e Corea del Sud. Fino a ieri il ricco Occidente, pagando il prezzo della crisi occupazionale, si era illuso di essersi disfatto anche delle sostanze tossiche, confinandole in Asia, Africa e America Latina. La scienza certifica oggi che non è più così. Nove studiosi di tre nazioni, lanciando l’allarme del calo dell’attesa di vita in Cina a causa dell’inquinamento, aprono l’era degli studi sulle «conseguenze ambientali delle economie interconnesse », invitando i governi ad analizzare «gli effetti transfrontalieri delle emissioni industriali». «Il commercio – sostiene il professor Jintai Lin, autore principale di uno dei rapporti – cambia la localizzazione della produzione, ma i danni ambientali sono tali da ripercuotersi comunque su tutti». Gli studi hanno scoperto che l’inquinamento cinese, in pochi giorni, grazie alle correnti raggiunge il Pacifico e la costa Ovest degli Usa. Polveri sottili, ozono e carbonio si accumulano ad esempio in California e sono causa almeno di un giorno in più all’anno del superamento dei limiti dello smog a Los Angeles. Sostanze tossiche emesse dalle multinazionali in Cina, a partire da acciaierie, cementifici, industrie chimiche e meccaniche, ma soprattutto aziende alimentate dal carbone, a distanza di poche ore sono state rilevate attorno al monte Fuji in Giappone, sopra gli arcipelaghi oceanici, o sulla Siberia, in viaggio verso l’Eurozona. La Cina nel 2013 ha causato circa il 16% dell’inquinamento globale, ma il 22% di questo è stato prodotto da multinazionali straniere e almeno il 5% dello smog cinese ha colpito i Paesi esteri. Sotto accusa, oltre a Pechino, finiscono le
multinazionali delocalizzate, che oltre ai costi per manodopera e fisco, tagliano anche quelli per depuratori ed energia pulita, complici gli Stati nazionali d’origine. «Dobbiamo capire – scrive Alex Wang, docente di diritto all’università della California – che l’inquinamento cinese è collegato ai prodotti acquistati ogni giorno in Usa e Ue e che lo stesso inquinamento, che oggi uccide i cinesi, si appresta a mietere vittime anche nel resto del mondo». L’impatto delle emissioni globali, raccomanda l’Onu, non va dunque più misurato solo nei luoghi della produzione, ma anche in quelli del consumo, seguendo le rotte dei venti e delle merci. Un’équipe franco-belga, grazie all’avveniristico «interferometro atmosferico di sondaggio infrarosso», nei giorni scorsi ha rilevato ossido di carbonio, anidride solforosa, ammoniaca e solfati di ammonio, fino ad oggi misurati in Cina solo a pochi metri da terra, anche nello spazio. E’ il prezzo che il mondo paga all’esplosione di apparecchi elettronici, automobili, videogiochi, elettrodomestici, beni di lusso e abbigliamento low-cost: il 60% delle industrie cinesi, in gran parte sotto controllo straniero, viola le norme anti-inquinamento, sforando di 10 volte il limiti di sicurezza. Smog e veleni industriali in Cina uccidono circa 1,5 milioni di persone all’anno, riducono di 8 anni l’attesa di vita, surriscaldano il Pacifico e causano cicloni sempre più distruttivi per l’Asia, costringono milioni di persone a vivere tappate in casa, superando fino a 40 volte i limiti raccomandati dall’Oms. Questa Cina tossica, bomba ecologica ad orologeria e prima potenza produttiva del pianeta, è però a sua volta un prodotto dell’Occidente e assieme all’usa e getta sparge ora sul mondo i veleni globalizzati che non riesce più a contenere. Gli scienziati la definiscono «airpocalypse»: quella che in queste ore costringe Pechino, inghiottita nello smog, a proiettare alba e tramonto su un maxi-schermo in piazza Tienanmen, a pochi metri da un inivisibile mausoleo di Mao Zedong.


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