Il sindaco prepara il piano B (puntando su Alfano)

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ROMA — O l’intesa o la legge: non è un paradosso, sta scritto nel manuale della politica che non si imposta una trattativa senza avere un piano B. E siccome Renzi vuole fortissimamente intestarsi la riforma del sistema di voto, si è rigidamente attenuto al precetto quando ha preso a negoziare con Berlusconi, così da assicurarsi comunque l’obiettivo anche nel caso in cui il Cavaliere dovesse sciogliere il patto. Non andrà così, perché — se l’ex premier si tirasse indietro — il segretario del Pd lo accuserebbe di inaffidabilità, additandolo agli elettori e condannandolo di nuovo a un ruolo marginale nel gioco di Palazzo. Ecco perché è il leader forzista a trovarsi dinnanzi a quel «bivio» evocato ieri da Renzi a Ballarò, e non a caso.
Se saltasse l’accordo, infatti, il capo dei democrat ha già approntato un piano B, analizzato nei dettagli con il suo braccio destro Guerini e studiato insieme alla segreteria del partito, al punto che la responsabile per le riforme Boschi l’ha mandato a memoria: è la mappa del Senato, la distribuzione dei gruppi parlamentari, la loro forza numerica, la linea assunta sulla legge elettorale, persino gli eventuali distinguo dei singoli parlamentari. Tanta applicazione sugli equilibri di Palazzo Madama disvela il disegno di Renzi, che — se costretto — sarebbe pronto a procedere «a maggioranza», grazie alla sponda di Alfano con cui — al di là dei toni usati con i media per evidenti interessi di «ditta» — ha stretto un solido rapporto.
Non è dato sapere se Berlusconi sia a conoscenza del piano B di Renzi, se il segretario del Pd gliene abbia fatto cenno nelle varie telefonate di ieri, di sicuro il Cavaliere — ostaggio di se stesso, dei suoi alleati e di una parte dei dirigenti del suo partito — deve scegliere. Ed è combattuto tra l’istinto di non accettare la soglia del 38% per il premio di maggioranza, che sarebbe per lui un’asticella troppo alta da superare; il desiderio di rivalsa verso il Nuovo centrodestra, a cui non vorrebbe concedere spazio; le pressioni degli alleati leghisti che attendono la norma territoriale; e persino gli avvertimenti di un pezzo consistente del gruppo forzista, che sfrutta la riforma come strumento per la resa dei conti interna.
Al «bivio», Berlusconi teme di rompere. Un’ipotesi che ha preso in considerazione, e che gli è stata vivamente sconsigliata da Verdini, dai capigruppo Brunetta e Romani e dal solito Gianni Letta. Senza l’intesa, Renzi comunque punterebbe alla riforma, specie ora che per un verso ha coagulato i suoi gruppi parlamentari — a cui ieri ha reso omaggio — e per l’altro ha trovato un punto d’equilibrio con Alfano anche sugli assetti futuri di governo. Se ieri il vicepremier si è spinto a dire a Porta a Porta che «o si procede con il Letta-bis o è preferibile andare alle urne», è perché aveva avvisato il segretario del Pd della sua sortita. Il leader di Ncd lo ha fatto per mettere il punto, come una sorta di promemoria in attesa della trattativa, che inizierà solo dopo il voto di Montecitorio sulla riforma.
Adesso no, non sarebbe consigliabile. Un motivo lo ha spiegato tra il serio e il faceto un autorevole ministro: «Per un emendamento sulla legge elettorale, ti chiedono in cambio due dicasteri». D’altronde sono molti in questa fase gli attori che si contendono la scena. Forse troppi. Anche i presidenti delle Camere, infatti, hanno abbandonato l’etichetta istituzionale e si sono pronunciati. È vero, da anni ormai le seconde e terze cariche dello Stato hanno preso a esprimersi su temi prettamente politici. Ma negli ultimi giorni Grasso e la Boldrini sono entrati nel merito della riforma. Così, dopo che il titolare di Palazzo Madama ha invitato ad alzare la soglia per il premio di maggioranza «al 40%», l’inquilina di Montecitorio ha sponsorizzato la tesi del collega, ha esortato ad abbassare la quota di sbarramento per le forze più piccole, e ha criticato le candidature multiple. Ma i partiti, indaffarati nella vertenza, non si sono accorti dei suggerimenti.
E la vertenza sta per concludersi, sotto la «vigilanza» del capo dello Stato che ha adoperato la moral suasion (e anche il telefono) per rammentare ai leader quali sono i confini della riforma, perimetrati dalla sentenza della Corte costituzionale: va evitato che la legge produca o addirittura peggiori il «tasso di disproporzionalità» presente nel Porcellum. Traduzione: va alzata la soglia per il premio di maggioranza, con accorgimenti annessi. Renzi è d’accordo. Tocca a Berlusconi dire se farà parte o meno della carovana, che comunque si metterà in cammino.


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