La crisi degli emergenti contagia la Grecia

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NEW YORK. «NON temo rischi per l’Italia derivanti dalla situazione attuale dei mercati emergenti», ha detto Saccomanni (nel giorno in cui la Bundesbank suggerisce la “patrimoniale” alle Nazioni a rischio di insolvenza). È la prima volta che le turbolenze nate nei Paesi emergenti lambiscono così da vicino l’eurozona. Il bond decennale della Grecia, sceso a un rendimento del 7,62% all’inizio del mese, è risalito fino all’8,53%. Il tonfo nel valore dei titoli di Stato greci (che si muovono in direzione opposta al rendimento) è il peggiore del mondo alla pari con l’Indonesia.
Da Hong Kong e Taiwan fino al Sudafrica, alla riapertura dei mercati ieri tutte le Borse hanno proseguito le cadute della scorsa settimana. Ma la crisi più acuta colpisce le valute dei Paesi emergenti. La lira turca è all’11esima seduta in
calo rispetto al dollaro. Il rand sudafricano è precipitato a livelli che non si vedevano dai tempi del crac di Lehman Brothers, il fallimento bancario che innescò la crisi del 2008. Il rublo russo è ai minimi da 5 anni. Le economie emergenti, che fino all’anno scorso avevano il vento in poppa, ora sono colpite da sfiducia e fughe di capitali.
Per descrivere questo fuggi fuggi generale il governatore della banca centrale del Brasile, Alexandre Tombini, parla di un “effetto aspirapolvere”. L’aspirapolvere sono i rialzi dei rendimenti in Occidente. Innescati dalla decisione della Federal Reserve di ridimensionare gradualmente il “quantitative easing” (creazione di liquidità attraverso acquisti di bond). Con i rendimenti che diventano più interessanti sia in America sia in Europa per effetto della ripresa (o delle aspettative di ripresa, per l’Europa), tanti capitali speculativi abbandonano le piazze esotiche dove erano affluiti negli ultimi anni. Il Brasile reagisce all’effetto aspirapolvere con un classico giro di vite monetario: ha alzato i tassi d’interesse della banca centrale di 325 punti base, fino a superare la soglia del 10%. Tombini è convinto che il Brasile ce la farà, anche se ha già dovuto spendere 360 miliardi di dollari delle sue riserve per tentare (invano) di contrastare il calo della sua moneta.
Oggi l’attenzione torna a concentrarsi sulla causa primaria di tutte queste turbolenze: la Federal Reserve. La banca centrale americana riunisce il suo comitato di politica monetaria. È una riunione “storica” per il passaggio delle consegne da Ben Bernanke alla prima donna presidente, Janet Yellen. Ma l’attenzione dei mercati si concentra soprattutto sulle prossime mosse della Fed. Nel 2013 Bernanke e la stessa Yellen hanno tentato di spiegare che la ripresa Usa impone di normalizzare la politica monetaria, riducendo la “pompa” della liquidità. E tuttavia, hanno aggiunto che questo non significa che la Fed voglia aumentare il costo del denaro. La seconda parte del messaggio però non funziona. I mercati guardano lontano, scommettono che con la crescita Usa arriveranno anche i rialzi dei tassi. E il gioco delle aspettative sta già facendo risalire i rendimenti. Con quel che ne deriva: effetto aspirapolvere, e guai seri per tutte le economie emergenti che erano state beneficiate dalla moneta abbondante stampata a Washington.

 


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