La strategia in due mosse del premier

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ROMA — Sette giorni per un nuovo governo. Il presidente del Consiglio ancora non rompe il silenzio e, nel chiuso di Palazzo Chigi, lavora al patto di coalizione, primo passaggio (stretto) verso il rilancio dell’esecutivo. Il secondo è il Letta bis, che il premier fortissimamente vuole, ma che può ottenere solo dopo aver strappato la firma dei leader dei partiti all’Impegno 2014.
A dispetto del clima arroventato e dei tanti nodi ancora da sciogliere Enrico Letta procede un passo alla volta, fedele al suo motto «domani è un altro giorno». Il premier è determinato a chiudere entro venerdì la firma del contratto di governo. La sua tabella di marcia, scritta con l’inchiostro dell’ottimismo, prevede nel fine settimana salita al Quirinale e dimissioni e poi, in rapida successione, nuovo incarico per la formazione del nuovo governo. La palla di una crisi pilotata è tornata nelle sue mani. Ma il premier aspetta certezze e rassicurazioni da Renzi, che ancora non arrivano. E così a Palazzo Chigi non si dà nulla per scontato, si parla di «eventuale bis» e si tiene aperta, contestualmente, la porta del «rimpasto minimo».
Il premier sa di non potersi permettere false ripartenze e, se temporeggia, è per non sbagliare il timing delle prossime mosse. Consapevole della fragilità della sua maggioranza, preferisce muoversi con grandissima prudenza e in stretto contatto con il Quirinale. Nel suo entourage sono in tanti a tirargli la giacca, a pressarlo affettuosamente per convincerlo a «battere un colpo» nel tentativo di frenare la corsa di Renzi. Eppure Letta tira dritto sulla strada della cautela, a rischio di sembrare indeciso o «desaparecido» (copyright Brunetta) e lasciando filtrare solo i commenti più buonisti.
I filo-governativi del Pd guardano a Renzi con sospetto, temono che il segretario voglia la scissione a sinistra «per spedire Letta in Europa, fare le larghe intese con Berlusconi e raccogliere l’eredità politica del Cavaliere». Uno scenario che per tanti è fantapolitica, ma che Pippo Civati conferma: «Mi sembra più probabile il “Renzi 1” che il Letta bis, con questo Parlamento e senza passare per il voto». Retroscena ai quali, invece, il premier non sembra dare alcun credito, visto che giudica come «positivo» l’accordo tra Renzi e Berlusconi.
Il suo obiettivo è arrivare a Bruxelles il 29 gennaio con il «patto di governo» in tasca, i tempi sono strettissimi e Letta non vuole rischiare strappi. Ieri ha lavorato tutto il giorno sul testo di Impegno 2014, ha parlato con i leader dei partiti (Renzi compreso) e sente di aver «fatto molti passi avanti» su fisco, sburocratizzazione, posti di lavoro… Si è occupato delle scorie di Gioia Tauro, si è adoperato per sminare la questione «esplosiva» delle detrazioni, ma non ha trascurato i tormenti del Pd. Anche se evita di intervenire pubblicamente, l’ex vicesegretario è «molto preoccupato» per la spaccatura sulla legge elettorale, che ritiene «politicamente molto grave». Ha provato in tutti i modi a far cambiare idea a Gianni Cuperlo, lo ha chiamato e ci ha parlato più volte, ma ieri mattina è stato costretto ad arrendersi. «Non sono riuscito ad evitare le sue dimissioni e mi dispiace profondamente — ha ammesso —. Il Pd è l’architrave del sistema e l’elemento portante del governo, bisogna scongiurare che si aprano altre crepe…».
Se non si è fatto sentire il giorno della direzione del Pd, quando Renzi ha attaccato Cuperlo e l’ex presidente ha lasciato polemicamente la sala, è perché una sua parola in quel momento delicatissimo lo avrebbe esposto come «uomo di parte», mettendo a rischio la sua immagine da «statista» e ritagliandogli un ruolo minore, da capo dell’opposizione pd. Eppure, mentre si tiene lontano dalla ribalta politica, Letta continua a tessere la sua tela. A Gaetano Quagliariello, ministro delle Riforme, Letta ha chiesto di favorire una «solida intesa» tra i partiti, che regga alla prova del Parlamento e che sia inattaccabile sotto il profilo della costituzionalità. Sì, perché a preoccupare il premier è la tenuta dei gruppi parlamentari, divisi sulla riforma del sistema di voto come sul Jobs act di Renzi. L’epicentro delle trattative (e dello scontro) è la commissione Affari costituzionali della Camera, dove all’asse tra renziani e berlusconiani si contrappongono i fautori delle preferenze: democratici filo-governativi, Ncd, Scelta civica e grillini.
La clessidra è agli sgoccioli e i nodi sono parecchio intricati. Tra Alfano e il segretario del Pd è braccio di ferro sui diritti. Il leader di Ncd non vuole sentir parlare di ius soli e unioni civili, Renzi non intende rinunciarvi e il premier, anche qui, è costretto a mediare: al leader pd Letta avrebbe chiesto di valutare lo «stralcio» delle due riforme dal testo dell’Impegno 2014.
Monica Guerzoni


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