L’appello per salvare il soldato Snowden

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La sua intervista al Washington Post, con toni insieme trionfali e messianici — «Ho vinto, la mia missione è finita » — gli merita una definizione di «insopportabile e arrogante ipocrita» dallo stesso quotidiano di Washington che lo accusa di non rendersi conto di fare lezioni di trasparenza stando sotto l’ala protettiva di uno dei governi più torbidi del mondo. Ma piace molto al New York Times, che gli riconosce di avere «reso un grande servizio alla nazione» e chiede «clemenza» a Obama. Per gli inglesi del Guardian,
il giornale che per primo diffuse le rivelazioni rubate allo spionaggio Usa, è addirittura un «eroe civico che merita il perdono presidenziale».

Le due linee di chi lo accusa di essere semplicemente un traditore e lo vorrebbe «appendere a una forca fino alla morte», come l’ex direttore della Nsa, e di chi invece guarda all’enormità degli abusi che ha rivelato convergono verso un punto che non è all’infinito, ma nel presente prossimo, e verso una persona fisica: il presidente Barack Obama.
Nella grande discrezionalità del sistema giudiziario americano, che non contempla la obbligatorietà dell’azione penale come quello italiano, il capo dello Stato e del governo detiene il potere assoluto non soltanto della grazia a posteriori, ma del perdono preventivo, come Gerald Ford utilizzò per chiudere ogni inchiesta, anche futura, contro Richard Nixon. Magistratura ordinaria, tribunali militari, commissioni parlamentari speciali con poteri giudiziari, tutti devono arrendersi se il Presidente copre con il mantello del proprio legittimo, e costituzionale, potere di immunizzazione il possibile imputato.
Ma legittimo non significa praticabile, né tanto meno politicamente accettabile. E l’incertezza dell’opinione pubblica, la contradditorietà dei tribunali che finora hanno affrontato quella legge che sembra giustificare la sorveglianza elettronica pervasiva e invasiva, il dissenso fra i leader di opinione sul giovane ex contractor dello spionaggio, mettono Obama in una situazione impossibile.
Il New York Times, in un editoriale solenne e impegnativo per la linea del quotidiano, pende dalla parte del giudizio positivo sulle azioni di Snowden: «Può darsi che abbia commesso reati, ma merita molto più di una vita in esilio, in fuga e nel terrore, perché ha reso un enorme servizio agli Stati Uniti». E il Guardian riflette gli umori degli inglesi, e degli europei, che al 60% considerano il
whistle blower, il cittadino che ha fischiato i tremendi falli dell’intelligence Usa, si chiede come sia possibile che un uomo che «fa il proprio dovere civico e costituzionale sia trattato come un criminale».
Negli Usa, come Obama sa ovviamene bene, il giudizio è molto più frammentato. Una maggioranza di coloro che si definiscono «Democratici », quindi suoi elettori, approvano quanto Snowden ha fatto e aborrono quelle tecniche di sorveglianza che un giudice ha già definito «quasi orwelliane». Ma una simmetrica maggioranza di repubblicani è per la crocifissione giudiziaria e accetta il patto faustiano che era scritto nella legge sulla sorveglianza varata da Bush dopo il 9/11: la sicurezza e la prevenzione dalle minacce terroristiche valgono bene l’intercettazione a tappeto di telefonate e di frequentazioni della Rete.
In questa lacerazione, che ha comunque strappato il velo che copriva la metastasi dell’intelligence elettronica e che lo stesso Obama ha condannato, scava e fruga con delizia quel Vladimir Putin, uno che di intrusioni nella vita degli altri, da ex ufficiale del Kgb, s’intende. Snowden è completamente in suo potere e il Cremlino stringe e apre il rubinetto delle rivelazioni e delle interviste che lui concede, sapendo che ogni parola, e ogni file, rilasciati saranno altro sale nella ferita purulenta dello scandalo.
Snowden è la risposta che Mosca sfodera quando sente che la pressione sulla propria microscopica credibilità civile aumenta e vuole, almeno per qualche giorno, spingere fuori dalle pagine dei media americani e occidentali la persecuzione del giornalismo critico in Russia, la vergogna delle leggi anti omosessuali e l’incubo del terrorismo che grava sulle olimpiadi invernali.
Ma se le tattiche di Putin sono riconoscibili, e la disponibilità di Snowden — di fatto suo prigioniero — ad assecondarlo è inevitabile, il problema rimane fermamente sulla scrivania dello Studio Ovale. La tendenza di Obama all’evasività e alla procrastinazione è messa sotto il tiro dei media che non gli permetteranno, come non gli permetteranno i tribunali, di ignorare questo elefante nel soggiorno della credibilità democratica americana.
Ci sarebbe una soluzione, ma politicamente, nell’anno delle elezioni parlamentari Usa, sarebbe esplosivamente controversa: concedere a Snowden l’immunità giudiziaria in cambio della sua piena collaborazione alla bonifica della palude spionistica, come infinite volte fu fatto con autentici farabutti, mafiosi, bancarottieri e con altri whistle blower, con chi denunciava malefatte di privati o di governi. È quella soluzione del male minore — l’infedeltà di Snowden — accettato per colpire un male maggiore — l’infedeltà alla costituzione di un braccio del governo — che restituirebbe agli Stati Uniti l’onore violato non da un giovanotto inquieto, ma dal governo stesso che ha giurato di difendere i diritti civili scolpiti nella Costituzione.


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