“Lo zio di Kim Jong-un dato in pasto ai cani”

by Sergio Segio | 4 Gennaio 2014 9:03

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IL MESSAGGIO è chiaro: ecco che fine fanno a Pyongyang i miei traditori, la «feccia umana» dei cospiratori filo-cinesi come mio zio Jang Song-Thaek, uno che era «peggio di un cane» e dai cani l’ho fatto sbranare. Così è morto, un mese fa, lo zio 67enne del dittatore nordcoreano Kim Jong-un: gettato nudo insieme a cinque collaboratori in mezzo a un branco di 120 cani affamati da tre giorni di digiuno. Una tortura senza via di scampo che ha anche un nome proprio, il quan jue, l’esecuzione affidata al migliore amico dell’uomo. C’è voluta un’ora perché lo strazio finisse. Lui, il nipotino Kim, assisteva insieme a trecento alti funzionari di regime, ai quali stava tentando di impartire la sua lezione di fedeltà politica.
I dettagli sulla prima grande purga dell’epopea di regime del giovane leader — che in passato si era sbarazzato di nemici di minor cabotaggio, fucilando persino una sua ex fidanzata — sono stati pubblicati tre settimane fa dal quotidiano cinese Wen Wei Po,
stampato a Hong Kong e molto legato al partito comunista cinese. È così filo governativo da essere giudicato 24esimo su 29 media locali per credibilità, praticamente un inaffidabile megafono di Pechino; ma proprio per questo la storia — ripresa successivamente da altri media cinesi, e infine rilanciata ieri dai quotidiani internazionali — diventa anche più intrigante: i terribili dettagli dell’esecuzione, secondo il quotidiano di Singapore The Straight Times, sono filtrati da fonti cinesi proprio per avvertire Kim che sta tirando troppo la corda. «La maggioranza del pubblico qui ha un atteggiamento negativo verso i recenti avvenimenti di Pyongyang. Ciò può imporre restrizioni ai legami sino-nordcoreani, e gli aiuti cinesi possono essere messi in discussione», avvertiva un duro editoriale pubblicato dal cinese Global Times.
L’anziano e potente generale Jang Song-Thaek, considerato in Occidente un riformista incline ad aprire il paese verso un’enomica
conomia più libera, è stato accusato da Pyongyang di cospirare contro il regime al soldo di Pechino: avrebbe svenduto (ai cinesi) carbone e risorse minerarie, avrebbe ceduto al ribasso riserve auree e concesso terreni per cinquant’anni nella zona eco-
speciale di Rason, una piccola Macao nordcoreana. Pyongyang non ha mai fatto mistero di essere pronta a girare verso Pechino le sue armi nucleari destinate ai troppo lontani Stati Uniti; e la Cina, pur avendo aiutato il Nord nella guerra delle due Coree, mantiene prudenza verso il piccolo, potente e intrattabile vicino. Le buone relazioni sono una realpolitik economica che il quan jue
di Pyongyang ha rischiato di mettere in forse. Ammesso che sia davvero accaduto: l’unica fonte sono in pratica i servizi cinesi, per i quali il giovane Kim è un gran bel problema irrisolto.

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