Profumo: “Se salta l’operazione non rischia solo il Monte ma tutto il sistema bancario”

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«ABBIAMO chiuso un capitolo. Ora si volta pagina. Dobbiamo mettere in sicurezza il Monte, e rilanciarlo in modo definitivo. Abbiamo le energie e le strategie per farlo. Pancia a terra per l’aumento di capitale. Perché se salta l’aumento, non rischia solo il Monte, ma l’intero sistema bancario italiano». Appena rientrato nel suo ufficio di Rocca Salimbeni, Alessandro Profumo commenta così l’esito del cda, che ha preso atto del rinvio della ricapitalizzazione. Un esito sofferto, preceduto da veleni e voci su una possibile uscita di scena dello stesso Profumo e dell’ad Fabrizio Viola.
Presidente, perché alla fine ci avete ripensato? Cosa vi ha convinto a restare, pur avendo perso la vostra partita?
«Ecco, ci tengo subito a dire che Viola ed io non abbiamo giocato o perso nessuna “partita”. Ho deciso di restare, e lui con me, per una ragione molto semplice: se ce ne fossimo andati, il traguardo della ricapitalizzazione e quindi del pieno rilancio della banca, che oggi resta molto difficile, sarebbe diventato impossibile».
Non sia immodesto: mi sta dicendo che senza di lei e Viola l’aumento a maggio non si farebbe e il Monte salterebbe per aria?
«Non è questione di immodestia. È la realtà dei fatti. Viola ed io conosciamo bene le difficoltà che ci aspettano. Abbiamo
deciso di affrontarle perché l’alternativa, e mi deve credere perché ho fatto alcune personali verifiche “sul campo”, sarebbe stata molto più traumatica. Per Mps, non certo per noi. Anche per questo avevo insistito sulla ricapitalizzazione immediata. Il nostro sogno era poter procedere all’aumento, rimborsare i 3 miliardi di Monti bond, e poter dire “finalmente non siamo più sotto la tutela dello Stato”. Se l’avessimo fatto subito, avremmo avuto una certezza. Rinviare tutto a maggio rende la prospettiva più incerta, e il percorso più accidentato».
Si dice che vi ha convinti a restare il ministro del Tesoro. Che rapporti ha con Saccomanni?
«Molto buoni. Anche se, devo dire, mi aspettavo un’incisività maggiore nei confronti della Fondazione».
Ma a questo punto lei non si sente un manager dimezzato?
«Se fosse così non resterei un solo minuto al mio posto. In questi mesi Viola ed io abbiamo gestito la banca in piena libertà. Se abbiamo fatto errori, li abbiamo fatti in totale autonomia. All’ultima assemblea siamo stati seduti sei ore, a prenderci i pesci faccia. Le assicuro che non è piacevole. Siamo consapevoli di quanto è e sarà dura. E siamo consapevoli che alla fine, comunque vada, quelli che hanno sbagliato saremo noi. Se l’aumento di capitale fallirà ci diranno che non siamo stati capaci di portarlo a termine. Se riuscirà ci diranno “perché mai avete fatto tanto casino, per un rinvio di pochi mesi?”. Abbiamo messo nel conto anche questo, e restiamo qui perché crediamo nel progetto Mps».
L’aumento di capitale posposto a maggio avrà i suoi costi. C’è un costo «politico »: la Fondazione vuole tenere i piedi piantati dentro la banca. È il solito «socialismo municipale», che resiste. Questo non è un gigantesco problema?
«Senta, qui non si tratta di impedire alla politica di tenere i piedi dentro la banca, ma di impedirgli di rimetterceli. E non solo alla politica, ma anche a un pezzo di sindacato, che esprime il sindaco della città. Se vuole, uno dei motivi per cui ho deciso di restare è anche questo. Difendere l’autonomia della banca. Finora ci sono riuscito. Dalle sponsorizzazioni ai fidi, in questi mesi non c’è stata una sola decisione che sia stata ispirata dalla politica. Continuerà così».
C’è un costo economico del rinvio. Aumenterà l’onere degli interessi sui Monti Bond. Quanto peserà sui conti?
«Dipende da quando partirà effettivamente l’aumento. Se sarà a maggio, come previsto, i maggiori oneri sui Monti Bond saranno pari a 120 milioni, considerato che paghiamo un interesse del 9,5% l’anno. Lo fronteggeremo, ma anche per questo avremmo preferito partire subito».
Nel frattempo bisognerà ricostituire il consorzio di garanzia, e la Fondazione dovrà trovare i nuovi soci ai quali cedere parte del suo 33,5%. Si parla di altre Fondazioni, guidate da Cariplo. Lei che ne pensa?
«Mi auguro che la Fondazione trovi gli interlocutori giusti. E mi auguro soprattutto che i tempi siano molto brevi e rispettati. Perché voglio dirle una cosa, con la massima chiarezza. Se non riusciamo a fare l’aumento di capitale, non è a rischio solo il Monte, ma l’intero sistema bancario italiano ».
Sta dicendo che se a maggio la vostra operazione fallisce si rischia un effetto domino?
«Sto dicendo che un’eventualità del genere avrebbe un impatto fortissimo, sia in Italia che all’estero. Sarebbe un segnale pessimo, anche per banche come Carige e Popolare di Milano, che hanno bisogno di aumenti analoghi. Insomma, mai come stavolta non possiamo permetterci di fallire ».
Sia sincero: com’è il reale stato di salute di Mps, a questo punto?
«Mi faccia ricordare da dove siamo partiti. Ci siamo insediati il 27 aprile dell’anno scorso, e a metà maggio avevamo 150 finanzieri che bussavano alla porta. C’era un deficit patrimoniale molto consistente, che tra i 3,4 miliardi di esercizio Eba, gli 1,9 miliardi di Tremonti bond da rimborsare e tutto il resto, ammontava a circa 6
miliardi. Oggi posso dire che la banca è solida. Se facciamo la ricapitalizzazione a maggio siamo a posto sul piano del patrimonio. Sul piano della redditività siamo in netto miglioramento, e in 18 mesi abbiamo ridotto i costi del 15% contro una media di sistema del 6%. La rete è stata totalmente ridisegnata, Viola ha messo in piedi una squadra di manager davvero eccellente».
Ma avete ancora perdite su crediti molto rilevanti…
«Questo è vero, ma dipende dal ciclo economico del Paese, che non aiuta. Ora, come direbbe Obelix, se il cielo non ci crolla sulla testa, nel 2014 rivedremo il segno più alla voce Pil. Questo significa che la banca, che abbiamo rimesso in carreggiata, ha ottime possibilità di ritornare a correre ».
Lei ripete che al Monte serve un «socio forte». Un socio industriale, cioè un’altra grande banca, o un socio finanziario?
«Al Montepaschi servono investitori solidi che ci facciano crescere, più che una banca con la quale fondersi. Dal mio punto di vista personale l’opzione è indifferente, ma dal punto di vista dell’istituto io reputo migliore la soluzione di uno o più soci finanziari».
Lo dice perché se arriva un’altra banca e si fonde con Mps la prima cosa che fa è cacciare i manager…
«Si sbaglia. La mia unica ambizione è che il Monte sia a posto. E per essere a posto, penso sia meglio un socio finanziario che mette i soldi, migliora le potenzialità della banca nel rispetto dei suoi legami con la città e con il territorio. Viceversa, se arriva un’altra banca, compra, incorpora e addio Siena».
Una «pratica» in cui lei è un maestro, fin dai tempi di Unicredit, quando comprava tutto e comprava troppo…
«In generale, le confesso che preferisco comprare che essere comprato. Quanto alla mia stagione a Unicredit, certo, ho commesso i miei errori, ma mi pare che il saldo finale sia straordinariamente positivo. Unicredit oggi è un colosso globale, fortissimo all’estero. Durante la mia gestione abbiamo investito in Germania, Austria, Polonia, Russia e Turchia, che guarda caso sono i Paesi che crescono di più. E se ripenso all’operazione Unicredit- Hvb, vedo parecchie analogia con la fusione Fiat-Chrysler fatta da Marchionne, per i pesi relativi tra le entità fuse. Dunque, ho ben poco di cui rammaricarmi».
Anche perché le hanno dato una montagna di soldi. Quel bonus da 40 milioni fa ancora discutere: una perizia chiesta dalla Procura di Roma dice che il suo compenso è stato il doppio del dovuto e ha «depauperato» la società. Che risponde?
«Ho letto questa relazione di Stefano Loconte, un fiscalista di Bari che sostiene che da contratto avrei avuto diritto a una buonuscita inferiore. Sono punti di vista. Io resto convinto che quel bonus fosse nei miei diritti, tanto che me lo hanno dato. E mi faccia dire che se avessi letto allora le intercettazioni telefoniche tra alcuni componenti del cda Unicredit e alcuni soggetti esterni alla banca, uscite sui giornali solo alcuni mesi dopo, sarei stato anche più rigido nella negoziazione sulla buonuscita».
Via, non si lamenti, non le è andata poi così male…
«Non mi lamento. Infatti oggi sono qui a Siena, a lavorare quasi gratis, perché lo ritengo giusto e perché non voglio pesare sui conti della banca, proprio in una fase in cui purtroppo siamo costretti a ridurre gli organici».
Ma per i banchieri resta un enorme problema reputazionale. Siete considerati un «potere forte» che si arricchisce mentre il resto d’Italia impoverisce. E non avete fatto molto, in questi anni, per migliorare le cose…
«È vero. Abbiamo commesso molti errori. E non siamo stati capaci di spiegare alla gente cose positive che oggi ci si ritorcono
contro. Per esempio, Mps ha un rapporto depositi/impieghi del 125%, cioè squilibrato: prestiamo più soldi di quanti ne incassiamo. Questo vale per tutto il sistema bancario. Eppure ci accusano di non finanziare abbastanza l’economia reale, e noi finiamo per essere cornuti e mazziati. Il problema è che il nostro è un sistema troppo banco-centrico…».
Il problema è che avete finanziato gente che non se lo meritava, tipo Zunino o Zalesky?
«Anche quello, certo. Ma tagliare gli impieghi di quel tipo ci porterebbe a ridurre il rapporto con i depositi al 115%, non di più. Il nodo è strutturale, dovremmo creare un vero mercato alternativo del debito, ed uscire così dal banco-centrismo di questi anni. E dovremmo cambiare radicalmente il nostro modo di fare comunicazione al cliente».
«Vaste programme», le direbbe De Gaulle.
«Sì. Ma ironie a parte, questo è il vantaggio del Montepaschi di oggi. Per noi il 2013 è stato l’anno zero. Siamo ripartiti da un punto così basso, che ora possiamo essere davvero in prima fila nel cambiamento. Non abbiamo nulla da nascondere, e nulla da difendere. Se la Fondazione rispetta gli impegni, e se ci lasciano gestire l’istituto in piena autonomia, Mps può diventare il modello di un nuovo modo di fare banca».


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