Quel fronte che vuole Matteo a Palazzo Chigi

by Sergio Segio | 23 Gennaio 2014 11:07

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IL GOVERNO, presieduto da Enrico Letta, studia invece il resto: il rilancio dell’economia, la lotta alla disoccupazione, il semestre di presidenza dell’Ue.
Tutto chiaro quindi? Non tanto. Perché quello stesso schema nelle ultime ore viene esaminato da molti — dentro e fuori la maggioranza — con lenti diverse. Viene letto in controluce e nel chiaroscuro si intravede un percorso affatto diverso. Al termine del quale la meta si presenta con contorni molto più sfumati, completamente nuovi e per certi versi sorprendente: la nascita a febbraio di un esecutivo guidato non più da Letta ma dal segretario del Pd.
Anzi, si sta componendo un fronte che immagina un blitz e inizia ad avanzare un’idea: per realizzare le riforme, per dare un senso a questa legislatura, deve essere Renzi a sedere subito sulla poltrona di Palazzo Chigi. Suggerimenti che nelle ultime due settimane si sono susseguiti. O meglio, hanno spesso affiancato la trattativa per la definizione del sistema elettorale che dovrebbe mandare in soffitta il vecchio Porcellum, anche nella versione mutilata dalla Corte costituzionale. Consigli, però, che il leader democratico respinge al mittente. Non ne vuole nemmeno sentir parlare. «Ho altre gatte da pelare», risponde a tutti sapendo che una soluzione del genere potrebbe essere esiziale per se stesso e per il Pd. Si tratta, insomma, di un “no grazie” inequivocabile.
Eppure da Alfano a settori del Partito democratico, per arrivare agli alleati “minori”, tanti hanno chiesto al sindaco di Firenze: «Ma non sarà che debba toccare a te subito? ». Sarebbe, è il loro ragionamento, la garanzia per siglare un vero “Patto costituente”. Basta ascoltare un parlamentare esperto come Bruno Tabacci, leader del Centro Democratico e sfidante del segretario alle primarie del 2012, per capire che l’idea ha già raggiunto una fase avanzata di maturazione: «A me risulta che il capo dello Stato abbia fatto un discorso molto netto a Renzi: se non dai il sostegno al governo e non rendi possibile che questa legislatura arrivi alla primavera del 2015, io mi dimetto ». A meno che, racconta ancora Tabacci, «non sia tu a fare il governo. E non credo che Matteo sia molto lontano da questa ipotesi».
Ma anche un “ex avversario” come Angelino Alfano con i suoi fedelissimi non ha nascosto che sul tavolo ormai «è comparsa anche questa carta». I due hanno pranzato lunedì scorso al Viminale. Si sono capiti e in una certa misura hanno avviato un rapporto. Al punto che nelle ultime ore il vicepresidente del Consiglio a più riprese spiegava: «Io e Matteo alla fine ci comprendiamo, ci stiamo simpatici. Il problema semmai è tra lui e Letta. Non con me». Una riflessione che anche Pier Ferdinando Casini non fa nulla per nascondere: «Che male ci sarebbe?». Non solo. Il leader centrista sta spiazzando un po’ tutti, anche gli amici di lunga data, con i suoi giudizi sul sindaco di Firenze: «Mi ha sorpreso positivamente, sta dimostrando grande intelligenza politica».
Ma lo schema, se esaminato sempre in controluce e con la lente d’ingrandimento della battaglia interna al Partito democratico, assume un disegno ancor più delineato. E già, perché dentro il Pd — e non tanto tra i renziani della prima ora — sta emergendo la medesima opzione: subito il segretario a Palazzo Chigi. Ci sono anche ministri che cominciano a spingere in questa direzione. Del resto, molti deputati democratici, ascoltandolo martedì scorso all’assemblea del gruppo, hanno avuto un sobbalzo. «Se parte il treno delle riforme — è stato uno dei passaggi dell’intervento del segretario — non pongo limiti alla legislatura. Si può arrivare fino al 2018». E una lettiana come Paola De Micheli, avvisava: «Si sta a giocando il tutto per tutto». La stessa sensazione che ha avvertito Mario Monti nel faccia a faccia del 7 gennaio scorso a Firenze, tra le stanze trecentesche di Palazzo Vecchio. E i sospetti sono cresciuti ora che il segretario democratico ha annunciato di voler rinviare a metà febbraio la chiusura della “verifica”. Quando il “pacchettoriforme” sarà avviato.
Il ragionamento, appunto, non si svolge solo dentro il perimetro della maggioranza. La tentazione affascina anche Forza Italia. O meglio, il suo leader Silvio Berlusconi. Il quale, dopo il vertice di sabato scorso a Largo del Nazareno, si è fatto scappare con il suo staff una frase che ha lasciato un po’ tutti di stucco: «Perché non potrei fare anche io il ministro in un nuovo esecutivo di scopo?». E Daniela Santanchè, una che ben conosce le dinamiche del pensiero berlusconiano, chiosa: «È chiaro che se nasce un altro governo, c’è solo Renzi ».
«Io — ha detto ieri Gianni Cuperlo — sto alle parole del mio segretario: ha detto che non seguirà altra via se non quella delle elezioni per arrivare a Palazzo Chigi, che non prenderà la via parlamentare, e io sto a quelle parole ». Eppure, nella coalizione che sostiene l’esecutivo Letta, non tutti la pensano così. Molti, infatti, fanno notare che l’intero pacchetto di riforme difficilmente sarà approvato entro un anno. È vero che nella legge elettorale il leader democratico ha imposto una clausola che trasferisce il medesimo sistema anche al Senato. Un modo per essere comunque pronto ad un eventuale voto anticipato. Ma si perderebbe l’occasione per modernizzare il sistema istituzionale introducendo il monocameralismo. Una pattuglia di parlamentari del Pd sempre più folta, poi, espone sempre più spesso i suoi dubbi sulla possibilità che il governo in carica possa accompagnare il percorso riformatore. La loro paura è che la paralisi degli ultimi mesi possa continuare trasferendosi comunque sulla campagna elettorale e condizionando le chance di successo del centrosinistra. Il secondo aspetto sottolineato riguarda ancora Berlusconi: perché tra quattro anni probabilmente il Cavaliere rinuncerà a scendere in campo. Anche indirettamente. Tutti discorsi che non convincono Largo del Nazareno. Le perplessità di un’ascesa a Palazzo Chigi senza la legittimazione di un voto si moltiplicano nel Pd. Il precedente di Massimo D’Alema rappresenta un vero e proprio monito. Perché arrivare nella stanza dei bottoni prendendo l’ascensore di servizio è cosa diversa rispetto a salire lo scalone d’onore.

* per un’agitazione decisa dal Comitato di redazione i giornalisti di Repubblica si astengono dalla firma

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