Quindici mesi per sfruttare la fine dell’emergenza

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Quello di metà del 2011 in realtà fu un ritorno: lo spread aveva già fatto irruzione nella vita degli italiani nel ’92. Allora la lira e il debito pubblico di Roma erano finiti nell’occhio del ciclone che spazzò via il sistema di cambio europeo del tempo.

VENT’ANNI dopo il Paese è di nuovo il terreno su cui si svolge la partita per la tenuta dell’architettura monetaria dell’Europa di adesso. L’euro sopravviverà o andrà in pezzi in Italia, non in Grecia o a Cipro. È per questo che uno «spread» Bund-Btp di meno di 200 punti, il livello sotto al quale il vocabolo sparisce nella lingua comune, ricorda allo stesso tempo molti aspetti diversi. Il più immediato è che l’emergenza è finita, ma la normalità ancora non inizia. Il paese resta come sul filo del rasoio.
Da un lato c’è il calo dello spread sospinto da accenni di ripresa industriale, dalla tenuta del governo dopo la rottura con Forza Italia e da un avanzo primario (il saldo dei conti prima di pagare gli interessi) che resta il migliore di Eurolandia. Ciò ha permesso al Tesoro di risparmiare 2,7 miliardi in interessi solo nel 2013, apre spazi per ridurre le tasse sul lavoro e può creare dei posti di lavoro in più.
Dall’altro lato però non tutto è lineare come sembra. Il fabbisogno di cassa del governo del 2013 ha sfiorato gli 80 miliardi di euro, più del 5% del pil, eppure il Tesoro non ha ancora spiegato in dettaglio come farà a tenere il deficit pubblico, nella definizione ufficiale, entro il 3%. Il calo dello spread inoltre è determinato in buona parte da eventi lontani dal-l’Italia: la ripresa internazionale e
la gigantesca produzione di liquidità della Federal Reserve e della Bank of Japan, circa 1500 miliardi di dollari solo nel 2013; sono in primo luogo questi fattori a spingere gli investitori a comprare i titoli considerati più rischiosi e a più alto rendimento come quelli del debito italiano. Peraltro la liquidità globale sta affluendo verso i Btp in modo cauto rispetto a quanto non accada per i titoli di Spagna o Portogallo, i cui rendimenti calano anche più in fretta.
Anche passare sotto la soglia dei 200 punti-base di «spread» potrebbe non rivelarsi la svolta che appare a prima vista. Non con un’inflazione italiana che, a dicembre, resta inchiodata quasi a zero per la paralisi dei consumi e il crollo dei prestiti alle imprese, giunto ormai a intensità senza precedenti perché le banche italiane temono gli imminenti esami europei sui loro bilanci. L’inflazione bassissima fa sì che, a tassi uguali, il peso reale degli interessi sul debito sia più alto di un anno fa, quando il carovita in media era vicino al 3%. In queste condizioni, la matematica si impone: se l’economia non inizia davvero a crescere, il debito pubblico non potrà che salire ancora e riportare sfiducia e «spread» elevati sul Paese.
Se c’è un termometro che esprime l’ambivalenza di questo momento italiano più degli altri, è quello dell’export. In teoria sarebbe il motore della ripresa, nella pratica invece si presenta come un fenomeno pieno di contraddizioni. Pochi sembrano essersene accorti ma, malgrado la ripresa globale, il fatturato delle esportazioni italiane nel 2013 è addirittura sceso: sui primi nove mesi dell’anno (i dati più aggiornati di Sace) gli incassi totali del «made in Italy» erano un miliardo al di sotto di quelli di un anno prima, a 289,5 miliardi. Nel frattempo sono saliti di molto i fatturati all’estero di Paesi anche in difficoltà come Spagna, Portogallo o Irlanda. Eppure il dato italiano rivela grandi difformità al suo interno, non un grigio continuo. Ci sono settori e mercati di sbocco che deludono, come la meccanica o la stessa Europa, e aree di successo sorprendenti: accelerano molto la farmaceutica, la moda o l’alimentare, mentre emerge sempre più chiaro che le imprese del «made in Italy» stanno facendo dell’Africa un mercato di sbocco di primo livello e ricco di promesse per il futuro.
L’Italia era sul crinale anche nel ‘93, quando uscì dalla crisi di allora. Anche a quel tempo, dopo il ciclone dei mercati, i tassi scesero e in seguito restarono bassi a lungo in vista dell’aggancio all’euro e poi con i primi dieci anni di vita nella moneta unica. Allora l’Italia sprecò quel dividendo dei tassi bassi in corruzione, clientelismo e inefficienza, perché la spesa pubblica è salita dal 47% a oltre il 51% del Pil (60 miliardi) ma così hanno fatto anche le tasse, la povertà, la disoccupazione e l’ingiustizia sociale. Ora l’Italia rischia di avere circa quindici mesi, non altri quindici anni, per cogliere il secondo dividendo dei tassi bassi: dopo la Federal Reserve potrebbe iniziare ad alzare i tassi e ritirare la liquidità dai mercati, rivelando brutalmente chi nuotava senza costume.
Si tratta dunque di iniziare subito a ridurre gli sprechi e la materia prima della corruzione. Solo così la Germania potrà dare più tempo all’Italia per ridurre il suo debito dal 2015, evitando altre manovre lacrime e sangue tra un anno. Quando a questo, ieri il commissario alla spending review Carlo Cottarelli ha ricordato che una spesa più efficiente «è cruciale per la crescita». Ma lo ha fatto dal suo blog come un dissidente cinese che butta giù il suo programma in solitudine. Non come un esperto internazionale che il governo ha chiamato in Italia perché, in teoria, è deciso a dargli sostegno fino in fondo.


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