Sfida aperta fra generali e jihadisti addio alle speranze di piazza Tahrir

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GLI attentati del Cairo sono avvenuti alla vigilia dell’anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir. Sono passati infatti tre anni dall’inizio della primavera egiziana cominciata il 25 gennaio 2011.
LE ESPLOSIONI sulle sponde del Nilo, con i morti e i feriti che hanno provocato, appaiono come il sinistro segnale annunciante la fine di quell’insurrezione pacifica, disarmata, senza ghigliottine e plotoni d’esecuzione. Per la verità era già stata ormai da tempo repressa e dispersa, anche se speranze e illusioni stentano a morire. Ad appassirla sono stati i numerosi inganni e tradimenti. La primavera araba, in Egitto e altrove (solo la Tunisia per ora si salva) è caduta in quella grande, micidiale trappola che è la guerra in seno all’Islam. Un conflitto di religione, come l’Europa ha conosciuto nella sua storia. Piazza Tahrir è stata una vampata di dignità e tolleranza laica sfuggita per un po’, non per molto, a quella tenzone. Là, in piazza Tahrir, si è manifestata l’aspirazione a vere riforme della società civile. È stato un sussulto represso a ondate, spesso nel sangue. È tuttavia la fine senza il silenzio rassegnato che segue una rivoluzione fallita, la tragica conclusione senza un ordine rigoroso, orgoglio della controrivoluzione vincente. La restaurazione in corso è dunque incerta, agitata, contestata.
Le forze armate dispongono di tutti i mezzi necessari per imporre la loro “democrazia”. Nessuno ne dubita. Hanno l’appoggio di larga parte della popolazione ansiosa di ritornare alla stabilità. Anche questo è evidente. Ma i militari onnipotenti non esercitano un’influenza sufficiente per rassicurare l’intero paese. Non possono tenerlo al guinzaglio. Ci sono tanti morti alle loro spalle, più di mille il solo 14 agosto scorso tra i sostenitori di Morsi, il presidente deposto il mese precedente, il 3luglio: e quindi i conti da regolare sono tanti, e tante sono le rivincite che si stanno tramando, e tante le collere da sfogare. I generali hanno sfidato, decimato, cercato di disperdere, la principale organizzazione che si oppone al loro potere, la confraternita dei Fratelli musulmani: ci sono in parte riusciti, e tuttavia le frange di quella congregazione con profonde radici nella popolazione sfuggono al controllo. Sfuggono all’ampia rete poliziesca, ai mukabarat, anche i movimenti laici, minoritari ed emarginati a suo tempo nelle elezioni dai Fratelli musulmani, ma adesso diventati spesso loro compagni nell’illegalità o nella clandestinità. La tensione creata dalla repressione mette inoltre in circolazione gruppi terroristici indipendenti, come i jihadisti che hanno rivendicato gli attentati del Cairo.
Il 25 gennaio 2011 dalla mia finestra vedevo la manifestazione come da un palco di prima fila. Le nuvole dei lacrimogeni invadevano la mia camera d’albergo; le grida dei giovani in fuga e dei poliziotti all’inseguimento mi raggiungevano ben distinte. Ma non ebbi l’impressione di assistere a una rivolta che avrebbe sconvolto il paese, e scosso l’intero mondo arabo. Non pensavo che quei giovani potessero trascinare la società civile inerte in un’insurrezione capace di cacciare dal potere Hosni Mubarak, da trent’anni raìs discusso ma inamovibile. I generali avrebbero messo fine a quella ricreazione. Mi sbagliavo, e tanti come me quel giorno non hanno saputo valutare gli avvenimenti che avevano sotto gli occhi. Sono bastate poche ore, pochi giorni, perché ci rendessimo conto che in piazza Tahrir non avevamo assistito soltanto a una manifestazione.
Benché dotati di ben altri strumenti, neppure i militari hanno saputo valutare tre anni dopo il risultato del referendum (14-15 gennaio) sulla nuova Costituzione. Doveva essere un plebiscito in favore del loro regime e soprattutto un invito al generale Abdel Fattah Al — Sisi, l’uomo forte del momento, a presentarsi come candidato alla presidenza della Repubblica. Sei mesi dopo la destituzione di Mohammed Morsi, il presidente islamista, l’esercito voleva una larga partecipazione al fine di dimostrare l’approvazione popolare di quello che i media occidentali chiamavano colpo di Stato, ed altresì della messa al bando dei Fratelli musulmani cacciati dal potere e accusati di terrorismo. Dunque un pre-voto per il generale Sisi, destinato allapiù alta carica dello Stato, e una legittimazione del nuovo regime.
L’esercito ha impegnato nell’operazione tutti i suoi mezzi di persuasione. Propaganda e repressione. Gli inviti a votare “si”, insieme al ritratto del generale Sisi, hanno tappezzato il Cairo. Giornali, radio, televisioni hanno martellato i cinquantatré milioni di elettori esortandoli a recarsi alle urne per dimostrare il loro patriottismo. E coloro che hanno osato, nelle settimane o nei giorni precedenti il referendum, predicare l’astensione sotto l’influenza clandestina dei Fratelli musulmani, o dei rari movimenti laici dissociatisi dall’azione dei militari, sono stati arrestati o dissuasi con maniere forti. Bambini in uniforme militare, con la mano sul cuore, hanno supplicato — dai teleschermi pubblici e privati — padri, madri e fratelli maggiori a dare quel “si” prezioso all’amato Egitto in pericolo. Seguivano immagini di attentati terroristici e di arresti dei colpevoli islamisti.
La pessima prova dei Fratelli musulmani al governo e le manifestazioni di simpatia rivolte algenerale Sisi hanno fatto pensare a una grande affluenza alle urne. Anche piazza Tahrir è stata strumentalizzata. Il ritratto del generale Sisi è stato esposto al centro, addobbato dei colori nazionali, e riverito come un leader carismatico, un giorno degno successore di Nasser, Sadat e Mubarak. Con quelle cerimonie i militari hanno cercato di impadronirsi della rivoluzione che avevano osteggiato: prima imponendosi al governo senza grande successo, poi portando al potere con le elezioni i Fratelli musulmani, estranei alla rivoluzione, e infine mettendo fuori legge questi ultimi, accusati di terrorismo, benché si fossero rivelati soltanto incapaci di gestire il paese.
Più del 97 % dei votanti si sono espressi in favore della nuova Costituzione. Una maggioranza impressionante di “si”. Troppo massiccia per non far nascere qualche sospetto. Il risultato sarebbe apparso eccessivo persino ai tempi dei rais. Ma i “si” contavano poco. L’affluenza era la vera prova del consenso popolare: e il quoziente annunciato non è stato esaltante: 36%, vale a dire un egiziano su tre è andato alle urne. Poco più del 32% registrato nel 2012, quando si trattava di approvare un’altra versione della Costituzione, durante la presidenza di Morsi. Ma meno del 41% al primo voto post-rivoluzionario del marzo 2011. Il generale Sisi sperava probabilmente in uno slancio popolare più generoso. Insomma il plebiscito è stato un po’ deludente. L’affluenza ha rivelato che gli umori dell’Egitto non sono quelli espressi sotto lo sguardo vigile dei militari. Scippata sia dai Fratelli Musulmani sia dai militari piazza Tahrir fa ancora sognare una parte dell’Egitto.


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