TORINO-DETROIT IL PASSO FINALE

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 ALLORA il manager prese le redini di un’azienda considerata provinciale e ormai irrecuperabile. Ora invece porta tutta Chrysler nell’alveo di Fiat per un decimo di quanto la tedesca Daimler versò per conquistare lo stesso gruppo americano nel 1998 e per metà di quanto lo pagò Cerberus, il fondo di “locuste” del private equity, nel 2007.
Il manager italo-americano avrà così l’accesso alla cassa di Chrysler per investire anche in Europa e confermare che sa anche costruire auto competitive in un gruppo su tre gambe: il Vecchio continente, dove il marchio Fiat continua a bruciare miliardi, più Nord America e America Latina dove invece il binomio Torino più Detroit ha messo a segno quest’anno il 70% di tutte le attività in utile della nuova casa transatlantica. È un risultato senza precedenti per un gruppo italiano, raggiunto proprio ora che il suo mercato nazionale è in caduta libera. Proiezione globale del manager di punta più tecnologie verdi, con le quali ha conquistato l’amministrazione Obama nel 2009, sono state le sue armi decisive. Marchionne adesso guida il settimo gruppo auto del mondo, capace di vendere quasi cinque milioni di vetture malgrado il forte arretramento in Europa. Lui stesso aveva detto che per sopravvivere nel mondo oggi bisogna venderne almeno sei ogni anno: non è più molto lontano dall’obiettivo. «Diventeremo un gruppo globale», ha detto non a caso l’amministratore delegato ieri.
Ancora prima della sfida industriale però Marchionne dovrà raccoglierne altre se possibile anche più difficili. Dovrà farlo, perché ora molti prenderanno il pallottoliere per contare vincenti, perdenti e possibili trappole dopo l’accordo con il sindacato Usa. In primo luogo c’è quello che per molti ormai è un salvataggio alla rovescia. Gli italiani che hanno preso il marchio di Detroit alla bancarotta e lo hanno rilanciato, scriveva due settimane fa il Wall Street Journal, ora di fatto sperano di esserne salvati: «Gli utili di Chrysler tengono Fiat in utile oggi». Usare la liquidità generata negli Stati Uniti per sostenere le attività in Italia rischia di rivelarsi un’operazione politicamente tutt’altro che facile.
Poi c’è il problema dell’architettura finanziaria dell’accordo di ieri. UAW e il suo fondo Veba escono dal capitale della casa di Detroit con circa 4,3 miliardi di dollari versati dal nuovo gruppo integrato italo- americano: c’è l’esborso da 3,6 miliardi ufficialmente destinato al trasferimento della quota azionaria del 41,5%, più 700 milioni in rate su quattro anni «ad integrazione del contratto collettivo di Chrysler Group». Può essere molto, se si pensa che vari analisti ancora in ottobre stimavano poco sopra i tre miliardi il costo della presa di controllo totale di Detroit da parte di Fiat. Non lo è, invece, tenendo conto che UAW-Veba chiedeva cinque miliardi e il sindacato americano minacciava di forzare una quotazione del gruppo Usa a Wall Street. A quel punto per Fiat il costo del 100% di Chrysler poteva salire in modo incontrollabile.
Molto o poco che sia, l’esborso per il sindacato Usa adesso sarà sottoposto a un nuovo test: quello delle agenzie di rating. Fitch e Moody’s hanno «prospettive negative » su Fiat, S&P’s è neutra, ma le tra grandi agenzie non hanno mai tolto il gruppo dal livello «spazzatura». Nuovi declassamenti potrebbero aumentare gli oneri finanziari per Fiat-Chrysler proprio quando servono forti investimenti industriali. E l’accordo con i sindacati Usa costa 4,2 miliardi di dollari a un’azienda sulla quale Marchionne per primo è stato chiaro: «Siamo indebitati più della maggior parte dei nostri concorrenti», ha detto con la sua solita franchezza l’amministratore delegato agli analisti in novembre.
Da una parte c’è una liquidità di circa venti miliardi di euro. Dall’altra un debito industriale netto di quasi dieci miliardi, investimenti attesi per più di otto miliardi quest’anno, più l’enorme onere delle pensioni di Chrysler. Nuove bocciature sul rating potrebbe spostare in peggio gli equilibri.
Thomas Besson di Kepler Chevreux e Philip Watkins di Citigroup, sostengono che l’intera struttura finanziaria del gruppo «sembra inadeguata» all’accordo con UAW-Veba. Insomma c’è troppo debito a confronto di tutte le concorrenti (meno Peugeot). In proposito il Lingotto fa sapere che non è previsto nessuno aumento di capitale e dunque la famiglia Agnelli non sarà chiamata a versare nuove risorse per rafforzare il gruppo. Il comunicato ufficiale di ieri tace invece su eventuali cessioni di attività, ma informalmente da Torino si fa sapere che non sono previste. Per evitarle, il nuovo Fiat Chrysler probabilmente ha bisogno di continuare ad aumentare le vendite di auto negli Stati Uniti e in Brasile ai ritmi degli ultimi anni, benché l’America Latina oggi sembri in frenata.
Altrimenti, fra le smentite di Torino, c’è già chi pensa che Fiat dovrà vendere qualcosa dei beni di famiglia. Besson di Kepler Chevreux per esempio è convinto che Marchionne possa portare in Borsa, anche senza perdere il controllo, il miglior gioiello della corona: Ferrari.


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