Tra le strade sotto assedio di Falluja “Meglio Al Qaeda che l’esercito sciita”

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BAGDAD — Normalmente per andare in auto da Falluja a Bagdad ci vuole meno di un’ora. Domenica mattina, con la città sotto assedio, l’obitorio invaso di cadaveri e gli abitanti a corto di cibo, acqua e carburante per i generatori, Osama al Ani ha infilato in macchina la sua famiglia di 7 persone ed è partito per la capitale. Per superare tutti i checkpoint, gli ci sono volute 12 ore. Eppure, nonostante sia stato costretto ad abbandonare la città, al Ani continua a simpatizzare più per la guerriglia schierata con Al Qaeda che per il governo centrale. «Non c’era più da mangiare, né elettricità, né acqua, solo colpi di artiglieria che cadevano tutto intorno », dice. «Ma molti di noi preferiscono Al Qaeda all’esercito che ha portato a questo massacro».
Combattenti sunniti, in alcuni casi membri dello Stato islamico di Iraq e Siria affiliato ad Al Qaeda e in altri casi esponenti delle tribù arrabbiati con il governo, hanno scatenato scontri armati che vanno avanti da giorni quando hanno preso il controllo di Falluja la scorsa settimana. I combattimenti, ormai entrati nella seconda settimana, si concentrano nelle due città principali, Falluja e Ramadi. A Ramadi, che è la città più grande della provincia e non è una roccaforte dell’estremismo sunnita come Falluja, il governo nei giorni scorsi ha fatto progressi significativi: le forze di sicurezza hanno combattuto al fianco delle milizie tribali strappando ad Al Qaeda buona parte della città. A Falluja, però, è diverso: anche qui Al Maliki ha cercato il sostegno delle tribù foraggiandole con armi e soldi, ma con risultati meno brillanti. Intervistato per telefono, shaykh Mohamed al Bachary, un leader tribale di Falluja, avvisa che l’esercito incontrerà una fiera resistenza da parte delle milizie tribali se cercherà di entrare in città. «Abbiamo uomini veri e così come lo abbiamo dimostrato agli americani, possiamo dimostrarlo ad Al Maliki e al suo esercito ». Il primo ministro etichetta sistematicamente come terroristi e fiancheggiatori di Al Qaeda tutti i sunniti che manifestano il loro malcontento e perciò non è facile assicurarsi il sostegno dei sunniti moderati e dei leader tribali.
I bombardamenti dell’artiglieria governativa e la durezza delle precedenti repressioni delle proteste dei sunniti nella provincia
hanno esacerbato gli animi della comunità sunnita nei confronti del governo. Per molti abitanti i bombardamenti hanno evocato i dolorosi ricordi dei primi anni dell’occupazione americana, quando le forze Usa combatterono due grosse battaglie per il controllo della città con un pesante bilancio di vittime tra i civili. «Qui a Falluja siamo stanchi di guerre», dice Mohamed Hamid, 35 anni. «Abbiamo visto Al Qaeda, gli americani e l’esercito iracheno distruggere la nostra città. Vogliamo vivere una vita normale». Hamid aggiunge: «Oggi, quando esco di casa, mi viene da piangere. Vedo di nuovo le bandiere di Al Qaeda, vedo edifici danneggiati, vedo uomini armati col volto coperto. È come camminare nella Falluja del 2005. Ricordo quei brutti giorni e mi chiedo: per cosa si combatteva allora? Perché così tanti iracheni e americani sono morti per questa città? E adesso siamo di nuovo nella stessa situazione ». Oggi in tanti, tra la cittadinanza, preferirebbero vedere la loro città nelle mani dei miliziani mascherati piuttosto che sotto il controllo dei soldati fedeli al governo controllato dagli sciiti.
Le scene di uomini sciiti con la bandiera di Hezbollah in pugno in fila davanti ai centri di reclutamento dell’esercito, pronti a offrirsi volontari per combattere nella provincia di Al Anbar non fanno che attizzare il fuoco del risentimento dei sunniti. Anche l’offerta di aiuto militare al governo da parte dell’Iran ha avuto l’effetto di accrescere ancora di più le tensioni settarie. «Se una delle città sciite fosse nelle mani di miliziani, Al Maliki darebbe ordine di bombardarla senza preoccuparsi di colpire famiglie, donne e bambini?», chiede Shaker Nazal, abitante di Falluja.
Alcuni abitanti, che ricordano i severi codici di comportamento imposti dai combattenti di Al Qaeda negli anni Duemila, dicono che i guerriglieri di adesso sono più accondiscendenti: portano carburante e aprono i forni distribuendo il pane gratis. Ma in generale non sanno chi è che comandi davvero. «Non si capisce nulla», dice Hajji Mahmud, 60 anni. «Vediamo uomini armati per la strada e non sappiamo se stanno cercando di proteggerci o se vogliono ammazzarci ».
(©The New York Times La Repubblica Traduzione Fabio Galimberti)


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