Veti e tensioni tra i democratici E anche la minoranza si interroga sul governo

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ROMA — In serata dice che «nella vita ci sono delle priorità», Gianni Cuperlo. E che «la priorità del nostro oggi è la salute di Bersani, solo quella». Dice che è l’ora «di essere uniti», il momento «di stare vicini alla famiglia di Pier Luigi e al suo partito, a cominciare da quello di Piacenza». Ma quando, com’era successo in mattinata, gli avevano chiesto un parere a freddo sul caso Fassina, ecco che la voce del presidente dell’Assemblea del Pd — che mai avrebbe potuto immaginare una domenica drammatica come quella di ieri — aveva assunto un tono più che allarmato: «Ho già detto ieri (sabato, ndr ) quello che pensavo. Per ora lasciamo perdere…».
Dietro i puntini di sospensione di Cuperlo, c’è un partito che trattiene il fiato. Diviso tra l’apprensione per le condizioni di Bersani e quell’atmosfera da guerra permanente che ha reso l’aria del Pd irrespirabile. Quantomeno nella minoranza che si oppone al sindaco di Firenze. «Io non parlo. Questa è una cosa che devono sbrigarsi Renzi e Letta», sbotta nel primo pomeriggio Ugo Sposetti, tesoriere degli ex Ds. Che però, un secondo dopo, cede a un misto tra rabbia e sconforto. «Quelle sulla scissione sono chiacchiere assurde. Ma va detto che di questo partito non rimane niente. I nostri stessi non lo amano, non lo vogliono…».
Parole dure, durissime. Pronunciate da chi probabilmente non ha condiviso neanche le dimissioni rapide del viceministro. Di certo, la mossa dell’economista bocconiano non è piaciuta a Matteo Orfini, che pure con Fassina aveva condiviso l’esperienza dei Giovani Turchi. «Matteo deve capire che è il segretario di tutto il Pd e che certe battute non può permettersele». Ma, è il sottotesto del deputato, «non ci si può mica dimettere per una battuta, per quanto fosse sgradevole». Ed è nulla rispetto a quello che Orfini dice a proposito del governo Letta, rovesciando la celeberrima massima di Giulio Andreotti. «O si fa qualcosa di serio su legge elettorale e lavoro o meglio lasciar perdere. In questo caso, secondo me, meglio tirare le cuoia che tirare a campare».
Dare ordine al caos sembra quasi impossibile. Al punto che, se la sinistra interna non sembra interamente d’accordo con Fassina, c’è chi — nell’ala moderata del Pd — lo sostiene. «Devo dire che sì, il gesto di Stefano l’ho compreso», sospira Rosy Bindi. «E al di là della condivisione», aggiunge, «l’ho anche capito umanamente». Come Peppe Fioroni, che non risparmia qualche siluro all’indirizzo di Renzi. «Non si può giustificare dicendo che ha preso tre milioni di voti alle primarie. Li avevano ottenuti anche Prodi, Veltroni e lo stesso Bersani», scandisce l’ex ministro. Che rincara la dose: «Bisogna avere rispetto sia per gli avversari che per i propri iscritti. Battute come il “Fassina chi?” sconfinano in un bullismo politico che può anche ricordare il peggior berlusconismo. Renzi deve saper distinguere l’autorevolezza dall’autoritarismo. La prima è propria del leader. La seconda, invece, appartiene alle mezze calzette».
La durezza dei toni, unita a un clima balcanizzato, sembra ricondurre le lancette dell’orologio del Pd alle fasi più calde del dibattito congressuale. Con i rottamandi che tornano a sfidare il Rottamatore, con la «vecchia guardia» che rialza la testa. «Renzi deve capire che non è questo il modo di guidare una comunità politica», dice Chiara Geloni, direttore di Youdem e pasionaria bersaniana. Prova dignitosamente a trattenere le lacrime, a dare un freno all’apprensione per l’ex segretario ricoverato a Parma. «L’abbraccio che Matteo ha mandato a Bersani fa piacere, sì». Pausa. Poi un segnale di pace. «In certi momenti questo partito sa ancora comportarsi come una famiglia». E quindi di nuovo la guerra, che ricomincia.
Tommaso Labate


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