Welfare in tempo di crisi

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Alla prima si obietta che è bella moralmente, ma che la questione è sempre la solita: la mancanza di soldi; alla seconda, che per parte sua indica dove trovare dei soldi, che siamo in un Paese democratico e civile, in cui non si può mica dare l’assalto alle vistose diligenze in cui viaggiano i ricchi. Il coro di coloro che invitano alla moderazione e alla ragionevolezza in tema di politiche sociali dirette a togliere a chi ha troppo e a dare qualcosa a chi ha troppo poco è che per poter promuovere una maggiore equità bisogna aspettare una consolidata ripresa economica, rendendo tutti contenti senza far torto a nessuno, neanche a chi probabilmente domani avrà ancora di più. Senza quel presupposto oggettivo, le nobili intenzioni restano chiacchiere. Ma è vero che per varare politiche sociali efficaci e persino ardite occorre attendere che il sistema economico trasudi salute? Falso, interamente falso. Le grandi politiche sociali, quelle che, culminate nei sistemi di welfare,hanno segnato un passo avanti di storico significato nell’assicurare sostanziali tutele agli strati sociali più deboli, non sono state lanciate in Paesi in cui il miele scorreva abbondante, ma al contrario in Paesi impoveriti, anche terribilmente impoveriti e scossi alla radice da crisi economiche e sociali della massima gravità. Così è avvenuto dopo la crisi del 1929, in Europa ad opera delle socialdemocrazie scandinave e degli stessi regimi nazista e fascista, negli Stati Uniti per impulso delNew Deal rooseveltiano; e ancor più è avvenuto, per la forte determinazione del governo laburista di Attlee, dopo la fine della seconda guerra mondiale in Gran Bretagna, quando vi erano ancora le tessere, aprendo poi la strada alla progressiva estensione, favorita dalla ripresa economica, dello “Stato del benessere” in un numero crescente di Paesi. Le risposte date alla crisi del 1929 e a quella seguente al 1945 furono i prodotti congiunti per un verso di un risveglio morale che unì la parte progressista delle classi dirigenti, socialisti riformisti, liberali di sinistra e cristiani sociali, per l’altro del timore del diffondersi del comunismo. E furono risposte alte e vincenti. Tutta opposta è stata ed è la risposta alla crisi che, iniziata nel 2008, morde ancora pesantemente. Quando quest’ultima scoppiò, da quasi trent’anni era in corso l’offensiva neoliberista, che, mentre invocava la libera iniziativa di ciascun individuo, nei fatti aveva lasciato padrone del campo le oligarchie finanziarie e industriali e seguito linee di sempre maggiore contrazione delle istituzioni del welfare.La parola d’ordine era che, se in passato era stata la spesa pubblica a sostenerle, era giunto il tempo di porre fine al malo andazzo, invitando alla corresponsabilizzazione delle singole persone e, per soccorrere quanti rimasti ai margini, alle iniziative di carattere caritativo. Negli anni successivi al 2008 le oligarchie plutocratiche — le quali grazie alle loro avidità speculative avevano provocato il disastro e a differenza che dopo il 1929 e il 1945 non avevano più da temere né la diffusione di un comunismo ormai fallito né una seria resistenza di esauste socialdemocrazie — ci fecero assistere a questo spettacolo, davvero brillante dal loro punto di vista: i nemici giurati dell’intervento pubblico rovesciarono sui bilanci statali e sulle tasche della massa dei contribuenti semi-poveri e poveri i costi della crisi di cui erano interamente responsabili. Al danno si aggiunsero le beffe. L’esito è stato l’accrescersi in maniera esponenziale delle diseguaglianze.
Questa tendenza si è pienamente dispiegata anche in Italia, dove il divario tra ricchi e poveri è andato costantemente aumentando, al punto che il reddito di circa il 10 per cento della popolazione è arrivato ad essere pari a quello di circa il 40 per cento del resto. Davvero in quel pozzo, che, se non senza fondo, è profondo, non si possono pescare risorse per finanziare l’“assegno universale” ai senza lavoro caldeggiato da Renzi, e davvero la patrimoniale auspicata dalla leader della Cgil avrebbe il carattere di una espropriazione comunista? Tra poche settimane, esattamente il 26 febbraio, saranno vent’anni da quando Norberto Bobbio diede alle stampe presso l’editore Donzelli il fortunatissimo saggio Destra e sinistra,nel quale il vecchio filosofo levava (e non gli toccò di vedere il seguito) la sua indignata denuncia contro l’acuirsi indecente delle diseguaglianze ed esortava una sinistra sbandata a rialzare la bandiera della giustizia sociale: da intendersi quest’ultima, sia chiaro, non alla maniera di Babeuf, ma di un movimento inteso, mediante il metodo delle riforme, ad assegnare ai poveri quel quantum di risorse senza le quali essi non possono condurre una dignitosa esistenza. I ricchi, si sa, non tutti per fortuna ma per sfortuna nella grande maggioranza, oppongono orecchie sorde a questo messaggio. Spetta ai buoni governi in generale e in particolare alle sinistre che non dimentichino la loro ragion d’essere di suonare la sveglia al senso della responsabilità sociale, senza il quale la sfiducia dei più verso lo Stato e la politica è destinata, del tutto motivatamente, a dilagare in masse ridotte addirittura alla disperazione.


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