La bellezza ci salverà

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«È urgente elaborare un pensiero comune pratico, uno stesso insieme di convinzioni volte all’azione, innescata dal bene comune e indirizzata alla politica». Sono parole di Jacques Maritain all’Unesco, nel clima della guerra fredda (1947). Ma valgono ancora oggi come un’agenda minima per reagire alla devastazione della natura, al cieco accanimento con cui (gli italiani in prima linea) continuiamo a distruggerla cannibalizzando ambiente e paesaggi. Si suol dire che «la bellezza salverà il mondo». Sono parole che Dostoevskij (nell’Idiota) mette in bocca al principe Myškin, e che in quel contesto hanno un contenuto intensamente mistico. Ma non dobbiamo usarle come un mantra auto-assolutorio: dovremmo sapere, invece, che la bellezza non salverà il mondo se noi non sapremo salvare la bellezza.
Intuizioni religiose e pensiero laico devono convergere, secondo le parole di Maritain. Proviamo a darne qualche esempio.
Isaia 5,8: «Guai a voi che ammucchiate casa su casa e congiungete campo a campo finché non rimanga spazio e restiate i soli ad abitare la Terra. Ha parlato alle mie orecchie il Signore degli eserciti: “Edificherete molte case ma resteranno deserte per quanto siano grandi e belle e, non vi sarà nessuno ad abitarle”». Parole che paiono scritte per l’Italia di oggi, dove si edifica “casa su casa” in nome della favoletta secondo cui solo l’edilizia è motore di sviluppo; ma i 5 milioni di appartamenti invenduti e la cementificazione del territorio senza nessun rapporto con l’inesistente crescita demografica dimostrano che non è così. Al di là di questa suggestione, il passo di Isaia evidenzia efficacemente il contrasto fra crescita delle case e devastazione dei campi coltivati.
Altro esempio tratto dai libri sacri, il detto Ama il prossimo tuo come te stesso, che è già nel Levitico e poi nei Vangeli. Commentandolo, Enzo Bianchi ha scritto che questo precetto «non basta più; oggi bisogna dire: “Amerai la Terra come te stesso”»; perché la Terra non è «uno scenario per l’uomo, ma costituisce una comunità la cui relazione è stretta e decisiva per gli animali, per le piante, per noi. In cui uno stesso spazio è condiviso ed abitato ed in cui vive un unico destino, in cui ci deve essere solidarietà per abitare armoniosamente in pace la Terra ». Ma che cosa voleva dire Nietzsche, quando (in una pagina del Così parlò Zarathustra) scrive: «Il vostro amore del prossimo è cattivo amore per voi stessi. Vi consiglio io forse l’amore per il prossimo? No; io vi consiglio la fuga dal prossimo e l’amore verso i più lontani; perché più nobile dell’amore per il prossimo è l’amore per i più lontani e per l’avvenire. Il “futuro” e “quel che è più lontano” siano dunque, per te, la causa che genera l’oggi». Dietro l’apparente svalutazione del precetto evangelico emerge la sua radicalizzazione: in nome della superiorità del futuro sul presente, Nietzsche suggerisce che dobbiamo amare non tanto i “prossimi”, troppo simili a noi, bensì i lontani: soprattutto i lontani nel tempo, le generazioni future. È per loro che dobbiamo preservare la Terra.
Nella vivace discussione sui diritti delle generazioni future, i temi ricorrenti sono la protezione del clima e dell’atmosfera, la conservazione della biodiversità, la tutela dell’ambiente, la gestione delle fonti di energia e dei rifiuti, il controllo delle biotecnologie, la tutela del patrimonio culturale. Il nesso forte tra bellezza e salute (del corpo e della mente), e dunque fra “paesaggio” e “ambiente”, è parte essenziale di questa storia, che ha radici assai antiche. In un trattato attribuito a Ippocrate, Arie acque luoghi (fine del V secolo a.C.) è chiaro il nesso fra malattia e ambiente; perciò le patologie vi sono distinte fra “comuni” a tutti e “locali”, cioè legate a infelici condizioni ambientali. Fu questa una preoccupazione costante della medicina greca, e non solo: un decreto di Atene del 430 a.C. vietava «di mettere i pellami a imputridire nel fiume Ilisso, di praticare in quell’area la concia delle pelli e di gettarne gli scarti nel fiume». Nello stesso spirito, Platone scrive nelle Leggi che «l’acqua si inquina facilmente; perciò è necessario proteggerla per legge. E la legge deve punire chiunque corrompa l’acqua sapendo di farlo, condannandolo a pagare un’ammenda e a ripulire l’acqua a proprie spese».
Oggi dobbiamo ripetere gli stessi identici principi, ma estendendo enormemente lo sguardo. Nessun crimine ambientale è abbastanza lontano da noi da poterlo ignorare: non la deforestazione in Brasile, non il “continente di plastica” (grande quattro volte l’Italia) che
galleggia nel Pacifico, non la distruzione di specie vegetali e animali nel Madagascar, non le conseguenze dei disastri nucleari in Ucraina e in Giappone. In questo pianeta senza vere lontananze, “l’amore verso i più lontani” fa tutt’uno con la cura per noi stessi. Ma le generazioni future hanno davvero diritti, anche se non sono in grado di rivendicarli? E in nome di che cosa noi dobbiamo rappresentare oggi i loro diritti di domani?
Distinguiamo, come facevano i Romani, gli immutabili principi del Diritto (ius) dalla mutevole varietà delle leggi (leges), calibrate ad arbitrio dei governanti.
Orientiamo la bussola sulle istanze di fondo di un alto sistema di valori incardinato sulla protezione della natura e della salute umana, ma anche sull’etica pubblica e la moralità individuale. Le singole leggi possono conformarsi o meno a questi alti principi, ma quando non lo fanno la disobbedienza civile è un dovere. Disobbedienza ispirata dalla nozione di pubblico interesse, che rilancia temi assai antichi: perché quando gli antichi Statuti dei Comuni e le leggi degli Stati preunitari parlavano di bonum commune o di
publica utilitas avevano di mira proprio i diritti delle generazioni future, ed è per questo che hanno costruito per noi le città che abitiamo, i paesaggi che andiamo devastando.
Nel suo Principio responsabilità (1979), Hans Jonas scrive che «la comunanza dei destini dell’uomo e della natura, riscoperta nel pericolo, ci fa riscoprire anche la dignità propria della natura, imponendoci di conservarne l’integrità ». È «l’imperativo ecologico», che secondo Peter Häberle comporta «un nuovo sviluppo dello Stato costituzionale, che deve ormai assumere responsabilità verso le generazioni future, e perciò è obbligato a tutelare l’ambiente, deve cioè diventare uno Stato ambientale di diritto». È di qui che nascono la nozione di ecocidio e la proposta di creare un tribunale internazionale contro i crimini ambientali. È di qui che ha origine il nesso forte fra diritto ambientale e diritto alla salute, che si sta affermando nelle nuove Costituzioni come quella della Bolivia (2009), che prescrive «un ambiente sano, protetto ed equilibrato» per «gli individui e le comunità delle generazioni presenti e future» (art. 33). Ma la priorità del bene comune è centralissima già nella nostra Costituzione, in particolare nell’art. 9 (tutela del paesaggio e del patrimonio artistico), nel suo intimo nesso con l’art. 32 (diritto alla salute), evidenziato dalla Corte Costituzionale.
Ambiente, paesaggio, beni culturali formano un insieme unitario e inscindibile con la cultura, l’arte, la scuola, l’università e la ricerca. Con esse, concorrono in misura determinante al principio di uguaglianza fra i cittadini, alla loro «pari dignità sociale» (art. 3), alla libertà e alla democrazia. Per la nostra Costituzione, attualissima ma inattuata, la tutela dell’ambiente, del paesaggio, dei suoli agricoli è strumento di libertà e di democrazia. Perciò è triste che si parli tanto di cambiare la Costituzione, e così poco di metterne in pratica i principi e lo spirito.


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