Il «flash mob» degli industriali

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Gli industriali cambiano il modo per far sentire le loro ragioni e battono altre strade, fanno appello alla partecipazione e all’orgoglio degli iscritti, chiedono idee ai grandi comunicatori per «bucare il video».

La mobilitazione stavolta parte da una rosa mitterrandiana e da una scritta quasi struggente: «Amo l’Italia, ma basta!». Seicento imprenditori delle province piemontesi hanno affollato ieri l’Unione industriali di Torino per far sentire la loro voce. Grazie all’aiuto di un pubblicitario di rango come Marco Testa hanno messo in piedi un kit di comunicazione di tutto rispetto: un simbolo (la rosa), un sito (www.ripresaeimpresa.it), un presidio «creativo» stile flash mob oggi a Roma davanti a Montecitorio. E l’idea di realizzare una marcia dei 40 mila, stavolta digitale, perché come ha sintetizzato con efficacia il presidente degli industriali cuneesi, Franco Biraghi, «le attività produttive in Italia sono torchiate più delle olive». Ad aprire la manifestazione e darle un’anima è stata la combattiva presidente di Torino, Licia Mattioli che ha anche identificato l’obiettivo unificante: «Abbiamo bisogno di una crescita pari almeno al 2% l’anno». A chiuderla Giorgio Squinzi, attentissimo a evitare trappole nel Renzi day e ad allentare l’impressione che sia stato anche il penultimatum della Confindustria a mettere alle corde il governo Letta. «La politica non è il nostro compito — ha scandito a scanso di equivoci il numero uno degli industriali italiani — e il programma presentato in extremis da Enrico Letta aveva anche una buona analisi, quelle che mancavano erano però le risposte».
Al di là della congiuntura politica la mobilitazione torinese racconta molte cose. Nell’epoca del budget zero, dell’instabilità politica e dello spostamento delle vere decisioni a Bruxelles/Francoforte, la strumentazione tradizionale del lobbismo confindustriale non funziona più come in passato. L’ultima legge di Stabilità con la sparizione della promessa riduzione del cuneo fiscale ne è stata la dimostrazione più lampante. E così gli industriali per far sentire le loro sacrosante ragioni battono altre strade, fanno appello alla partecipazione e all’orgoglio dei loro iscritti, chiedono idee ai grandi comunicatori per «bucare il video», cercano in tutti i modi di costruire un nuovo percorso della rappresentanza. «Il Paese ha smesso di credere nelle imprese» ha denunciato la Mattioli e le ha fatto eco Squinzi dicendo che «se ci dessero un Paese normale faremmo vedere di che cosa siamo capaci». Sul piano più strettamente economico l’assemblea di ieri ha rappresentato un test significativo delle difficoltà delle imprese e del ripiegamento di interi settori. La biellese Marilena Bolli ha detto senza remore che il suo distretto tessile «è a rischio di sopravvivenza». Gli altri presidenti delle territoriali che si sono alternati al microfono hanno, chi più chi meno, sciorinato il rosario doloroso dei tagli di Pil, di fatturato e di occupati. «Se un imprenditore potesse mettere le ruote sotto il suo stabilimento – ha confessato Biraghi – lo farebbe volentieri e se ne andrebbe».
È mancato forse un approfondimento di politica economica per chiarire meglio quale è la proposta della Confindustria davanti ai vincoli europei e ai ritardi governativi nel taglio della spesa pubblica. Avrebbe meritato più spazio la riflessione sulla relazione tra banca e impresa, che si va impoverendo quando invece dovrebbe creare valore e selezionare il credito su basi meritocratiche. E c’è stato anche un certo pudore nell’evitare di tematizzare coram populo la polarizzazione crescente tra le aziende-lepri che esportano alla grande (e usufruiranno della ripresa della domanda mondiale) e quelle che invece sono iperconcentrate sul mercato interno e sono destinate a soffrire ancora almeno per l’intero 2014. Significativo il passaggio nel quale lo stesso Squinzi, interpretando la sofferenza della platea, ha voluto ribadire come la filiera del mattone e della casa, che conosce bene come padrone della Mapei, «non ha subito un crollo del 30% come ho sentito dire, ma almeno del 50%». Altrettanto rivelatrici del disagio delle piccole imprese presenti sono state le ripetute sottolineature, dal palco, degli effetti perversi causati dal ritardo del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. «Gli imprenditori, per loro natura, non possono essere disfattisti perché il loro mestiere è scommettere sul futuro» ha chiosato la presidente Mattioli ma fare i conti «con la cultura antindustriale che prende piede nel Paese e continuare ad amarlo» è sempre più arduo.
Dario Di Vico


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