Le città italiane ultime per servizi Ma li fanno pagare molto di più

Le città italiane ultime per servizi Ma li fanno pagare molto di più

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Che nei posti in fondo alla classifica europea per qualità dei servizi pubblici locali figuri persino la città di Zurigo è certo una sorpresa per gli svizzeri: ma è una ben magra consolazione per noi italiani.
Dicono i risultati di un’inchiesta della Commissione europea rielaborati dall’ufficio studi della Confartigianato che in quella graduatoria siamo gli ultimissimi. Ultimissimi alla pari con la Grecia. Davanti abbiamo trenta Paesi: tutti gli altri partner dell’Unione europea più Turchia, Islanda, Norvegia e Svizzera. E il fatto ancora più avvilente è che delle 83 città prese in esame per stilare questa graduatoria, Roma occupa la casella, pensate un po’, numero 81. La capitale d’Italia è dunque la peggiore fra tutte le capitali europee per qualità dei servizi locali: trasporti pubblici, pulizia delle strade, rifiuti urbani…
L’inchiesta condotta da Eurobarometro si basa su dati relativi al 2013, anno delle elezioni comunali a Roma, e dà la misura della missione sovrumana che il nuovo sindaco Ignazio Marino ha di fronte a sé. Un compito tuttavia non molto più facile di quello che tocca ai suoi colleghi Luigi de Magistris e Leoluca Orlando, visto che Napoli e Palermo sono ancora più dietro: rispettivamente ottantaduesima e ottantatreesima. Ultime degli ultimi. Non che le nostre città del Nord brillino particolarmente, considerando che Bologna galleggia a metà classifica (posizione numero 39), mentre Verona e Torino non raggiungono nemmeno la mediocrità (rispettivamente ai posti 45 e 52). Ma la differenza fra le aree del Paese, come sottolineano i numeri contenuti nel documento della Confartigianato, è comunque talmente macroscopica da non poter essere trascurata.
Lo spiega con chiarezza il confronto fra il costo sostenuto dalle piccole imprese per smaltimento rifiuti e forniture di elettricità, gas e acqua, e il livello di soddisfazione per la qualità dei servizi pubblici, come misurati da Ref Ricerche per Indis Unioncamere e Istat. A Trento, per esempio, il prezzo è inferiore del 14,8 per cento alla media nazionale mentre l’indice di soddisfazione è superiore del 53,7 per cento. Così a Milano, dove a un costo più basso del 17,5 per cento corrisponde un maggior gradimento del 24,5 per cento rispetto al dato medio italiano. All’opposto troviamo invece Cagliari, dove le tariffe per le piccole imprese sono più alte del 37,8 per cento nonostante un livello di soddisfazione inferiore di ben il 58,4. E Palermo, con prezzi più salati del 17,3 e un gradimento più basso del 55,4 per cento rispetto alla media. E Roma: tariffe più 7,3 e soddisfazione meno 17,6.
Ma è ancora una volta in confronto con l’Europa a mettere in luce quanto queste contraddizioni possano pesare sulle tasche dei cittadini. Negli ultimi dieci anni il costo dei servizi pubblici locali non energetici (le forniture di gas e luce sono fortemente influenzate dai prezzi delle materie prime) è aumentato in Italia del 73,3 per cento, a fronte di un’inflazione del 24,1. Il rincaro reale è stato perciò del 49,2 per cento, quasi tre volte e mezzo la crescita del 14,9 per cento registrata al netto dell’inflazione nei 17 Paesi dell’euro: di cui siamo quindi in larga misura responsabili proprio noi.
Il bello è che nonostante questa progressione impetuosa delle tariffe made in Italy, i risultati di bilancio delle migliaia di aziende pubbliche locali erogatrici di quei servizi non sono certo sfavillanti. Lo studio della Confartigianato mostra che nel 2011 delle 6.151 imprese controllate da Regioni, Province e Comuni soltanto 2.879 (meno della metà) hanno chiuso il bilancio in utile, mentre 1.249 hanno archiviato l’anno in pareggio e le restanti 2.023 hanno presentato conti in rosso. E che rosso: in media un milione 94.768 euro ciascuna, per un totale di due miliardi 225 milioni. Somma tale da azzerare il miliardo e 413 milioni di utili realizzati dalle aziende pubbliche profittevoli (mediamente 490.815 euro ognuna di esse), facendo così gravare sulla collettività una perdita netta di 802 milioni.
Il peso di queste imprese sull’economia nazionale, inoltre, continua a crescere in modo inarrestabile. Nel 2011 la loro spesa consolidata ha raggiunto 65,5 miliardi di euro. È il 4,2 per cento del Prodotto interno lordo, contro il 2,2 per cento del 1998. Con punte vertiginose. Nel Lazio il peso delle imprese pubbliche locali sull’economia regionale è salito in tredici anni dall’1,7 al 4,3 per cento. In Veneto, dall’1,5 al 4,7. In Emilia-Romagna, dal 3 al 6,8 per cento. Nella Provincia autonoma di Trento, dal 4,7 al 10,3. Nella Valle D’Aosta, dal 2,9 al 14,3. Sono dati che spiegano molte cose. Per esempio, la crescita del numero degli addetti, che ha raggiunto quota 212.921: più 7.545 dipendenti soltanto nel 2010, lo stesso anno in cui il personale delle amministrazioni locali si riduceva di 13 mila unità e le imprese controllate dallo Stato ne perdevano 4.830. Per esempio, il fatto che il prezzo di certi servizi, come sostiene ancora la Confartigianato, appaia sempre più sganciato tanto dalla qualità, quanto dalla produttività. Prendiamo il trasporto urbano: il costo per chilometro va da un minimo di 1,48 euro in Umbria fino a 4,42 in Lombardia, 5,16 in Sicilia, 7,14 in Campania e 7,40 nel Lazio, dove la sola municipalizzata romana (Atac) ha quasi 12 mila dipendenti. E sono sempre gli autisti umbri quelli che percorrono più chilometri in un anno: mediamente 54.749. Nel Lazio ogni addetto alla guida ne fa invece 31.543 e in Lombardia 29.629, ma in Campania si scende a 19.170, per toccare il fondo in Sicilia con 17.210. «Nel Mezzogiorno», insiste il rapporto dell’organizzazione degli artigiani, «un autista del servizio di trasporto pubblico urbano ha una percorrenza inferiore del 16,1 per cento alla media nazionale». Ma un guidatore siciliano lavora addirittura un terzo di un suo collega dell’Umbria. Ci si può allora lamentare che neanche un cittadino su quattro, in Sicilia, si dichiari soddisfatto del servizio?
Sergio Rizzo


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