All’Ilva rischiano 400 operai
Trecento, forse 400 lavoratori. A tanto ammonterebbero secondo i sindacati gli esuberi che stanno per investire lo stabilimento Ilva di Cornigliano, fabbrica simbolo di ciò che rimane di una città che fu industriale. Una doccia fredda arrivata tre settimane fa quando l’azienda ha comunicato di non essere in grado di mantenere i «numeri» occupazionali previsti dall’accordo di programma. Un accordo che risale al 2005, anno in cui la città decise di investire sulla salute dismettendo l’area a caldo. In cambio i lavoratori ottennero precise garanzie e i 650 dipendenti fuoriusciti vennero occupati altrove. Erano altri anni, non c’era la crisi né il disastro di Taranto e lo stabilimento genovese doveva diventare strategico per la produzione di banda stagnata.
Le cose sono andate diversamente: oggi a Cornigliano 1450 dei 1740 dipendenti sono in contratto di solidarietà e si producono 28mila tonnellate di banda stagnata contro le 350 mila previste.
Dopo l’allarme dei sindacati il prefetto di Genova ha convocato il Collegio di vigilanza dove ancora una volta l’azienda di numeri non ne ha fatti. «Per non creare allarmismi — ha ammesso Enrico Martino, direttore Risorse umane del gruppo — ma i problemi ci sono».
Le istituzioni si sono messe subito in moto per chiedere all’Ilva di liberare alcune aree inutilizzate da destinare ad altre aziende, aree in zona portuale commercialmente molto appetibili. E dopo anni di dinieghi venerdì l’Ilva ha dato l’ok per 100 mila mq di spazi (su 1 milione), divisi in quattro lotti. Idealmente regione e comune di Genova sperano di collocare i lavoratori che dovranno lasciare l’Ilva nelle nuove imprese che si insedieranno. Ma tutti sanno che non sarà facile.
Per i sindacati, però, la partita degli esuberi e quella degli spazi devono viaggiare insieme. «Ci teniamo a essere informati rispetto alle aree — dice Armando Palombo della Rsu Fiom — ma anche a ricordare che esuberi ed aree sono un pacchetto unico e che l’accordo del 2005 non può essere modificato se non con un nuovo accordo». C’è cautela nel commentare quanto trapelato dal vertice in Regione a cui i sindacati non hanno partecipato «perché a noi interessano le garanzie occupazionali e la continuità di reddito».
Su uno dei quattro lotti che dovrebbero essere liberati ha sede la vecchia centrale termoelettrica dell’Ilva. Lì potrebbe nascere, se i Riva garantissero di diventarne i principali fruitori, una centrale nuova di zecca, realizzata da un consorzio formato da Ansaldo Energia e Iren. Un progetto che consentirebbe di rilanciare la produzione, frenata dagli alti costi energetici: «Il mercato delle ‘lattine’ è l’unico che non sente la crisi e vogliamo riprenderlo — ha spiegato Martino — ma il costo dell’energia per noi, rispetto ai concorrenti di Germania e Francia, è molto elevato». «Sicuramente è un’idea interessante — ribatte Palombo — ma non dimentichiamo che l’accordo del 2005 prevedeva già una nuova centrale elettrica che avrebbe dovuto essere realizzata dai Riva. E per rilanciare la banda stagnata, oltre alla centrale, l’Ilva dovrebbe investire 100 milioni su Genova».
Bene i progetti, quindi, ma prima di tutto i fatti. Perché se per i progetti ci vorranno anni, i lavoratori dell’Ilva hanno tempi stretti: a settembre scade il quarto e ultimo anno di contratti di solidarietà. Entro allora serve un nuovo accordo o il rischio di tensioni sociali diventerà realtà.
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