Bosnia, ora la guerra del pane la folla incendia i palazzi del potere

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«RIVOLUZIONE!», urlano migliaia di persone in piazza a Sarajevo, e i cannoncini della polizia sparano ad altezza uomo: lacrimogeni e acqua, sì, ma gli ospedali sono gonfi di feriti e la Bosnia precipita negli incubi della sua storia. «Sembra di essere tornati al 1992», dice il professor Amira Sadikovic ricordando l’orrore della guerra mentre i suoi concittadini infuriati lanciano pietre, lattine e bottiglie contro le vetrate del palazzo del governo regionale a cui hanno appiccato il fuoco. Ma stavolta la furia non ha colori etnici e simboli religiosi: è una protesta per il pane e per il lavoro.
Tutto è cominciato mercoledì a Tuzla, estremo nord industriale del Paese, 500mila abitanti molti dei quali impiegati in quattro industrie statali di mobili e detersivi mal privatizzate, divorate dalla corruzione e dall’incapacità e finite in bancarotta: non pagano gli stipendi da mesi. Ma in un Paese uscito devastato dalla guerra e poi affogato dall’economia nepotista, che con le privatizzazioni ha impoverito la classe media e arricchito un’oligarchia di papaveri di Stato, la miccia delle manifestazioni in piazza ha fatto rapidamente divampare l’incendio. E non è solo una metafora: bruciano i palazzi dei governi localidi Tuzla e Zenica, di Travnik, Mostar e Sarajevo, la capitale in cui è stato appiccato il fuoco persino in un’ala del palazzo presidenziale.
Il tasso di disoccupazione paralizzato al 44,5% ha ucciso il sogno di una rivincita economica; ma la paura di riaccendere il conflitto dopo i centomila morti della guerra e il difficile guado politico degli accordi di Dayton stavolta sembra non bastare più a sedare la frustrazione. La protesta, esplosa con violenza, si è estesa in tutta la Federazione croato musulmana, ma è arrivato anche l’appoggio dei giovani scesi in piazza a Banja Luka, nel cuore della Repubblica serba di Bosnia e Erzegovina.
«È una vera e propria Primavera bosniaca — dice Almir Arnaut, economista disoccupato e attivista di Tuzla — e non abbiamo niente da perdere. Ci sono 550mila disoccupati in Bosnia, saremo sempre di più a scendere in strada». Ma è il fumo nelle strade e il fuoco nei palazzi di Sarajevo l’immagine più estrema. I ragazzi si danno appuntamento su Facebook, le strade sono presidiate dalla polizia che spara proiettili di gomma per arginare ondate di migliaia di protestanti. Hanno tentato di forzare l’ingresso della presidenza, non ci sono riusciti ma hanno comunque appiccato le fiamme, spente poco dopo dai vigili del fuoco. I feriti sono almeno un centinaio, metà dei quali agenti. E mentre bruciano i palazzi del governo a Zenica e a Mostar, dove migliaia di manifestanti hanno lanciato computer e mobili dalle finestre senza che la polizia intervenisse, a Banja Luka una marcia pacifica di centinaia di serbi urla gli stessi slogan accusando i «ladri» e invocando la «rivoluzione». Non è più il tempo delle quote etniche, è il tempo del pane e del lavoro.


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