Germania. Ritorno alle armi

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BERLINO. Il vecchio cargo Transall verde e nero con la croce del Barone rosso sulla fusoliera ha appena spento i motori, l’eco del rombo delle turboeliche si perde nel vento. Sei soldati in mimetica, scarponi in kevlar ed elmetto in carbonio scendono dalla rampa, portano a spalla una bara d’alluminio avvolta nel tricolore federale. A un passo dall’aereo, una giovane bionda vedova con un neonato in braccio trattiene le lacrime, una banda della Luftwaffe suona il “Silenzio”, Ich hatte einen Kamarad, l’inno prussiano ai commilitoni caduti, e Amazing grace,
il motivo della Nato per le sue vittime al fronte. Sulla pista di Lipsia, è l’ultimo onore a un ennesimo giovane volontario della Bundeswehr ucciso dai Taliban in Afghanistan, mentre poco lontano al terminal passeggeri la risorta borghesia di Sassonia e i suoi giovani s’imbarcano ricchi e felici sui low cost per vacanze nei mari caldi. Eccola, nel gelido inverno, la Germania della svolta annunciata.
Occorre impegnarsi di più sulla scena mondiale, anche con azioni militari a fianco degli alleati, occorre immischiarsi: per noi è un dovere, nasce dal nostro peso e ruolo, hanno detto uno dopo l’altro ai vertici governativi. Tutti, con diverse sfumature: la cancelliera
Angela Merkel e la ministro della Difesa Ursula von der Leyen, il capo della diplomazia Frank-Walter Steinmeier e infine il capo dello Stato, l’ex dissidente dell’Est Joachim Gauck. Ma proprio contro di lui, che alla conferenza di Monaco sulla sicurezza aveva chiesto più impegno nel mondo, anche militare, ieri è stato un fuoco incrociato d’attacchi, irritazione e prese di distanze. Anche dai ranghi della maggioranza: «Il presidente non detta la linea politica», ha ammonito Peter Gauweiler, l’ideologo ultraconservatore della Csu bavarese. «Se un presidente americano, russo o giapponese avesse chiesto più impegno militare per ragioni etiche, avrebbe destabilizzato il mondo».
Non è un’ubriacatura militarista, non è voglia di colpire da soli. È la “cool Germania” dei Mondiali di calcio che accettò la sconfitta, e delle feste rock della gioventù europea a Berlino quella che vuole più impegni militari, da potenza adulta: un paese irriconoscibile rispetto ai tempi del Kaiser e di Hitler. Ma è comunque una svolta enorme, tanto che non solo Linke e Verdi ma anche i Liberali, nel campo dell’opposizione, accusano Gauck e gli altri fautori di un maggior impegno militare di «volere un’altra Repubblica ». Per la prima volta dal 1945, l’establishment tedesco non vuole più assistere inerte mentre soldati americani e britannici, francesi e italiani, muoiono al fronte nelle missioni internazionali. Non possiamo mostrare leadership solo nel salvataggio dell’euro, è il messaggio: dobbiamo deciderci a usare le armi a fianco dei partner, potenza a pari dignità.
Il passo della svolta è graduale, qui a Berlino. I sondaggi consigliano prudenza, e ispirano le dure critiche a Gauck. Gli alleati premono invece per scelte chiare. È il paradosso della Germania, democrazia alle armi: l’incubo del passato del Kaiser e poi di Hitler, le due guerre cominciate e perdute, è svanito dalla memoria di partner e vicini. Ma pesa nell’inconscio collettivo dei tedeschi. Quasi due terzi degli elettori sono contro ogni missione militare. I vecchi ricordi del pacifismo dell’Ovest nella guerra fredda, “Frieden schaffen ohne Waffen” (costruire la pace senza armi) restano vivissimi nell’opinione pubblica. Quando i radicali della Linke (la sinistra massimalista erede della dittatura di Berlino Est), accusano il presidente Gauck di «preparare il terreno a una militarizzazione della politica estera», pronunciano un nonsenso blasfemo, ma sanno di trovare ascolto. E quindi, la Germania alle armi procede con passo di piombo.
Primi annunci di missioni, ma maida soli, sempre e solo insieme aglialleati.Acominciaredall’Africa, ecco la grande novità: nella Repubblica Centrafricana, ma in modo più diretto e da impegno al fronte in Mali, la Bundeswehr si prepara a sostenere i francesi. «Noi abbiamo il dovere d’immischiarci di più nelle crisi internazionali », ha detto Angela Merkel. Il suo ministro degli Esteri, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, non è stato meno chiaro: «La cultura della prudenza militare non può diventare cultura di chi vuole tenersi comodamente fuori dalle crisi affrontate sul campo dagli alleati». In sintonia con Steinmeier, la nuova, ambiziosa ministro della Difesa, Ursula von der Leyen, possibile erede di “Angie”, ha sottolineato che un maggiore impegno internazionale del paese non può escludere, anzi dovrà comprendere, missioni militari di pace. Il «patriottismo costituzionale», l’orgoglio per la Costituzione più pacifista del mondo come Juergen Habermas lo definì, non tramonta ma si corregge.
L’opinione pubblica frena, finora negli ultimi anni le élites politiche l’avevano seguita: dal no alla guerra di Bush in Iraq al no all’intervento anglofrancese contro Gheddafi. Ma adesso, nonostante gli attacchi a Gauck, l’atmosfera è quasi da consenso bipartisan. «L’atteggiamento di chi dice “per favore senza di me” non è più accettabile», afferma Clemens Wergin, editorialista al liberalconservatore Die Welt, «non possiamo agire da superpotenza a livello dell’eurozona o europeo e poi comportarci come una grande Svizzera… e non c’è nulla di sospetto se la Germania dapprima definisce da sola i suoi interessi nazionali, poi li discute con i suoi alleati». Per Malte Lehming, columnist del progressista Der Tages spiegel, «gli Stati sovrani hanno un esercito per difendere se stessi e i propri interessi, con una sola eccezione: la Germania… ma forse ora la Germania sovrana sta diventando adulta, esce dall’eterna pubertà».
Germania alle armi, cento anni dopo l’inizio della Grande guerra. E quasi mezzo secolo dopo la guerra in Vietnam, quando gli Usa tentarono invano, in segreto, di ottenere reparti speciali tedeschi in rinforzo. Germania alle armi in ben altro contesto, certo: insieme agli alleati, non da sola o con altre monarchie autocratiche come ai tempi degli Hohenzollern e degli Asburgo, per non parlare di ricordi peggiori. E a nemici e vittime di ieri questa Berlino non fa paura: «Temo più una Germania debole e inerte che non una Germania forte e leader, e vedo che le cose si stanno muovendo», ha affermato il ministro degli Esteri polacco, Radoslaw
Sikorski.
Sarà un passaggio duro: la Bundeswehr (le forze armate federali) lotta ogni giorno con i bilanci stretti dell’austerità. A casa, come al fronte in Afghanistan o nei Balcani. Intanto già oggi, tra soldati in prima linea e veterani, la sindrome del reduce si fa strada, diventa tema quotidiano dei colloqui nel paese reale e argomento in prime time dei media. «Non dimenticherò mai quel venerdì delle ceneri del 2010, quando vidi morire tre commilitoni… provammo invano a curarli all’ospedale da campo, poi toccò a me metterli nelle bare d’alluminio… tornato a casa dal fronte, non riuscivo a parlarne con nessuno», confessa il caporale Severin Jaacks. «Tornata dalle missioni a Gibuti e in Afghanistan, sono cambiata, la voglia di spendere con lo shopping mi è scomparsa dalla mente», narra Melanie Baum, sottufficiale in servizio sulla fregata “Sachsen”, la più moderna della Bundesmarine. E forse il più triste di tutti è il sergente Thorsten Gehrk, anche lui reduce da Kabul: «Il rimprovero, il senso di colpa, non mi lasciano più da allora, ogni notte mi dico che avremmo potuto salvare almeno uno dei nostri soldati che ho visto cadere al fronte… il mio ego è rimasto in Afghanistan». La Germania che sdogana la forza militare e va alle armi, la Berlino che non vuole più stare a guardare mentre dall’Africa all’Hindukush ragazzi americani e italiani, francesi e britannici cadono per missioni ritenute nell’interesse di tutti, è anche una società che fa i conti più di altre col dubbio, i ricordi, gli incubi dei suoi ragazzi e ragazze in uniforme. Con media e famiglie sempre in attesa del prossimo vecchio Transall di ritorno da Kabul, a bordo le bare d’alluminio avvolte nella bandiera.


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