La tattica del sindaco per la direzione: niente provocazioni, tanto si dimette

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ROMA — Nell’ultimo summit, a sera tarda, quello ristretto, con Speranza, Zanda, Franceschini e Renzi si decide la linea finale: non raccogliamo le provocazioni di Letta, tanto domani si dimette. Perciò il segretario ieri ha preferito tacere ufficialmente. E far dire al suo portavoce Guerini: «In Direzione non ci sarà nessun duello. Il contributo offerto dal premier sarà oggetto di una discussione responsabile e approfondita, così come sarà fatto per quanto riguarda l’operato del governo».
Ma questa è l’ufficialità. Con i suoi, naturalmente, Renzi è ben più esplicito: «La storia si è esaurita, non ci sono più le condizioni per andare avanti. Questo governo rischia di essere una zavorra per l’Italia». Già, con i fedelissimi il sindaco di Firenze è netto e lascia pochi spazi ai dubbi. «Il partito è compatto con me», spiega il segretario. Sì, perché la minoranza gli ha fatto sapere che sarà con lui, oggi in Direzione. L’unico nodo da sciogliere è se sia meglio votare la relazione del segretario o un ordine del giorno, che formalmente spersonalizzerebbe lo scontro tra il leader e il premier. Ma la sostanza non cambia. Seppure in maniera garbata, sottolineando la bontà di alcune parti del programma di Letta («Tra l’altro — osserva il segretario — ha preso pari pari il Jobs act, le mie proposte sulla scuola, lo ius soli…».), si dirà che però ci vogliono «un’altra fase» e «altri protagonisti». Insomma, è necessaria «una discontinuità».
Di fatto, sarà una sorta di sfiducia a Letta, ma molto molto soft, per evitare nuovi scontri e conflitti. E i renziani sono convinti che dopo quel pronunciamento il presidente del Consiglio andrà al Colle, anche se c’è chi dice che invece insisterà per un passaggio parlamentare. Ma in casi come questi, è chiaro, i dubbi e i sospetti si affollano. Al Nazareno c’è addirittura chi sospetta che Letta voglia creare una sorta di «Asinello», come fece Parisi dopo che D’Alema prese il posto di Prodi. Un Asinello di centro, però, con i «Popolari per l’Italia» e Ncd. Il segretario non ci crede, invece. E comunque tira dritto per la sua strada. Non gli fanno paura nemmeno i sondaggi anti staffetta che i lettiani twittano da giorni: «I leader devono leggerli i sondaggi, non seguirli. Se io li avessi seguiti sarei rimasto presidente della provincia di Firenze. Non mi fanno paura, vedrete che la gente si dimenticherà questa storia». Qualcuno dei suoi gli chiede come. E lui risponde lesto: «Ho intenzione di fare due o tre cose esplosive nei primissimi mesi del governo, due tre cose importantissime. La staffetta non se la ricorderà più nessuno. Si dimenticheranno tutti del cambio tra me e Letta. Alla gente interessa l’occupazione, la crisi economica…».
È già entrato nella parte, il segretario del Partito democratico. Nel pomeriggio ha un lungo colloquio con il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, poi parla con gli alleati di governo. Ma la giornata di ieri, per Renzi, è stata piena anche di tensione. E pensare che in mattinata, dopo un’ora di scambio di insulti con il presidente del Consiglio, il segretario del Pd riteneva di aver trovato una sorta di compromesso con l’inquilino di Palazzo Chigi. Così, almeno ha raccontato ai suoi: «Non è andata malaccio, ci siamo lasciati con l’idea di individuare un percorso, lui mi ha dato dei consigli, mi ha anche detto quali provvedimenti, secondo lui, andavano portati avanti comunque, mi ha lasciato intendere che si dimetterà». Poi, ecco che da Palazzo Chigi fanno filtrare che il colloquio è andato male. A quel punto il sindaco di Firenze si arrabbia non poco: «Se è così, allora rimanesse pure lì, e noi andiamo alle elezioni a ottobre, pure con il “Consultellum”, se non ci fanno fare la riforma elettorale. Se pensa che facendo questi giochetti io mi ritragga, si sbaglia, io vado avanti».
In serata, poi, dopo aver sentito una parte della conferenza stampa del premier, il segretario è ancora più imbufalito. Prima si sfoga con i suoi: «Perché non lo ha tirato fuori prima questo “Impegno Italia”? Perché lo ha fatto solo adesso, mentre per settimane l’unica cosa che mi ha proposto è stato un rimpastino, quando io gli ho ripetuto mille volte che delle poltrone non mi frega niente? Non ci credeva?». Mano mano la rabbia è montata. Tanto che quando il leader doveva andare alla riunione con alcuni rappresentanti degli enti locali del Pd si è fatta irrefrenabile. Prima ha fatto una telefonata concitata: «Capito che cosa è successo? Avevamo siglato un patto e lui ha fatto l’opposto e ha scelto il muro contro muro. Come ci si può comportare così slealmente?». Poi, nella riunione, ha dato sfogo a tutta la sua rabbia: «Ha detto una cosa e ne ha fatta un’altra, si deve dimettere! Sapete che c’è? Domani (oggi per chi legge n.d.r. ) vado in Direzione e dico che andiamo a votare!». Il sindaco è furioso. Graziano Delrio lo allontana cercando di calmarlo. Fassino fa altrettanto. Qualche ora più tardi la decisione: non raccogliamo provocazioni, optiamo per la linea soft e così lo facciamo dimettere e acceleriamo la pratica. L’obiettivo, infatti, è di arrivare in Parlamento per la fiducia martedì o mercoledì al massimo.
Maria Teresa Meli


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