L’economia politica del renzismo

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Per capire la poli­tica eco­no­mica del nuovo governo di Mat­teo Renzi si è ten­tati di par­tire dalla sua inter­vi­sta al Foglio dell’8 giu­gno 2012: «Dimo­stre­remo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal libe­ri­smo ma che al con­tra­rio il libe­ri­smo è un con­cetto di sini­stra, e che le idee degli Zin­ga­les, degli Ichino e dei Blair non pos­sono essere dei tratti mar­gi­nali dell’identità del nostro par­tito, ma ne devono essere il cuore» (www?.ilfo?glio?.it/?s?o?l?o?q?u?i?/?1?3?721). L’economista della Chi­cago School Luigi Zin­ga­les è ora vicino agli ultrà libe­ri­sti di “Fer­mare il declino”, Pie­tro Ichino è sena­tore di Scelta Civica e Tony Blair con­si­glia i governi di Alba­nia, Kaza­ki­stan, Colom­bia.
Il qua­dro, tut­ta­via, è molto più com­pli­cato. L’orizzonte eco­no­mico del Ren­zi­smo ha quat­tro punti car­di­nali. Il primo è l’ancoraggio inter­na­zio­nale. Mat­teo Renzi è il primo lea­der poli­tico ita­liano con un rap­porto prio­ri­ta­rio con la finanza inter­na­zio­nale, attra­verso il finan­ziere di Alge­bris Davide Serra, suo stretto con­si­gliere. La capi­tale della finanza che ci riguarda è la City di Lon­dra, che si avvia a con­tare più di Ber­lino, dove Mer­kel già rim­piange Enrico Letta. Bru­xel­les resta un pas­sag­gio obbli­gato, ma pos­siamo aspet­tarci un Mat­teo Renzi meno inte­grato nella fati­cosa costru­zione isti­tu­zio­nale dell’Unione, pronto a smon­tarne qual­che pezzo e a muo­versi con le mani più libere, come spiega nella pagina seguente l’articolo di Anna Maria Merlo. Nes­suna atten­zione – si direbbe – per Parigi e le peri­fe­rie dell’Europa, dove Roma potrebbe diven­tare un impor­tante con­trap­peso rispetto a Ber­lino. La regola numero uno della finanza è che il car­tello lo fanno i cre­di­tori, tutti insieme con­tro chi è in debito, preso da solo.

Guai ai debi­tori che osas­sero coa­liz­zarsi, e il governo Renzi – come quelli che l’hanno pre­ce­duto – rico­no­sce che i poteri della finanza hanno la pre­ce­denza sugli inte­ressi mate­riali del paese più inde­bi­tato d’Europa, il nostro.
Il secondo punto car­di­nale del ren­zi­smo è il soste­gno interno — “dall’alto” – da parte del blocco d’interessi che lo appog­gia. Ren­dita finan­zia­ria e immo­bi­liare, le grandi imprese pro­tette dallo stato – dalle ban­che a Media­set, dall’energia alle tele­co­mu­ni­ca­zioni — Con­fin­du­stria e le pic­cole imprese con l’acqua alla gola, sci­vo­lando nel ceto medio impo­ve­rito, che teme di per­dere quel poco che ha, più di quanto imma­gini di poter otte­nere in più da lavoro, cono­scenza, inve­sti­menti. Resta da vedere come si col­lo­che­ranno gli inte­ressi che, soprat­tutto nel Mez­zo­giorno, scon­fi­nano con l’economia cri­mi­nale. Il ren­zi­smo ere­dita così buona parte del blocco d’interessi che erano stati garan­titi dal ber­lu­sco­ni­smo, e ne rac­co­glie la ban­diera uni­fi­cante dell’ostilità alla tas­sa­zione dei patri­moni. Ma nel ren­zi­smo c’è qual­cosa di più, il rin­no­va­mento della sedu­zione impren­di­to­riale espo­sta alla Leo­polda, da Eataly alla moda, un’ “eco­no­mia dell’offerta” fatta in casa che pro­mette pro­ta­go­ni­smo a gio­vani e nuove imprese, temi del primo Ber­lu­sconi poi sot­ter­rati da decenni di scan­dali e mano­vre di potere.
Il terzo punto car­di­nale è il suo radi­ca­mento dal basso. Può que­sto blocco d’interessi rin­no­vare l’egemonia, tra­sfor­marsi in un blocco sociale che ali­menti il con­senso al ren­zi­smo? È que­sto il com­pito più dif­fi­cile. Un ita­liano su sei è oggi senza lavoro, tra chi lavora uno su quat­tro è pre­ca­rio, l’industria ha perso un quarto della pro­du­zione rispetto a prima della crisi, la povertà dilaga. L’agenda eco­no­mica di Renzi garan­ti­sce il dieci per cento più ricco del paese, che pos­siede quasi metà della ric­chezza. Come si può con­vin­cere almeno un quarto di ita­liani impo­ve­riti che ciò che fa bene ad Alain Elkann fa bene anche a loro? Qui non c’è nulla da inven­tare, è un gioco riu­scito a Ronald Rea­gan 35 anni fa e che ha fun­zio­nato abba­stanza bene in tutto l’occidente (e oltre), ber­lu­sco­ni­smo com­preso. Si smon­tano le iden­tità e gli inte­ressi col­let­tivi – comu­nità locali, reti di soli­da­rietà, sin­da­cati – e si spiega a tutti che siamo indi­vi­dui che dob­biamo cogliere le oppor­tu­nità offerte dai mer­cati glo­bali, siano que­ste le spe­cu­la­zioni sui deri­vati o l’emigrazione per fare pizze a Ber­lino. Lo stato e le sue tasse sono il nemico prin­ci­pale che abbiamo tutti in comune. Se le oppor­tu­nità si rive­lano illu­sioni – come suc­cede in Ita­lia da vent’anni — sarà sol­tanto colpa nostra. La poli­tica non ha più la respon­sa­bi­lità di garan­tire svi­luppo, diritti, ugua­glianza.
Il quarto punto car­di­nale è il più effi­cace: il popu­li­smo. Finora c’è stata la “rot­ta­ma­zione” della vec­chia poli­tica, ora ver­ranno nuove disin­volte ope­ra­zioni per impau­rire e con­vin­cere i per­denti che potreb­bero per­dere molto di più. Gio­vani pre­cari a cui distri­buire qual­che bri­ciola con­tro vec­chi “garan­titi” a cui togliere diritti. L’efficienza del pri­vato con­tro la buro­cra­zia pub­blica che blocca il paese. E, natu­ral­mente, gli ita­liani da tute­lare con­tro gli immi­grati. La poli­tica e l’economia sono tra­sfor­mate in cari­ca­ture buone per la dichia­ra­zione del giorno in tv. Gli argo­menti pos­sono rove­sciarsi da un giorno all’altro, reto­rica e con­te­nuti sono dis­so­ciati, accordi e alleanze sono gui­date dall’opportunismo.
Con una bus­sola di que­sto tipo il ren­zi­smo non ha nulla in comune con la tra­di­zione social­de­mo­cra­tica e l’esperienza delle coa­li­zioni di centro-sinistra. Mar­ga­ret That­cher pen­sava che il suo risul­tato poli­tico più impor­tante fosse pro­prio la nascita del New Labour di Blair, costretto a «tra­sci­narsi nel mondo moderno», a soste­nere «il mer­cato, le pri­va­tiz­za­zioni, la riforma delle leggi sul lavoro e meno tasse su indi­vi­dui e imprese». Sil­vio Ber­lu­sconi – e il fan­ta­sma della Lady di ferro — potreb­bero pre­sto dire lo stesso di Mat­teo Renzi.


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