LO ZAR E GLI UMILIATI

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Che cosa i ligi applicatori della legge possano considerare “propaganda”, non è difficile immaginare: basta guardare l’immagine di un uomo e una donna che si scambino una tenerezza, e dichiararla propaganda eterosessuale. L’ironia sta nel legame piuttosto stretto che cimento olimpico e amore omosessuale ebbero all’origine, a proposito di tradizioni. A Sochi un impiegato del Kgb rifatto vuole celebrare agli occhi del mondo il proprio personale trionfo e la restaurazione della grande Russia. Per farlo non ha badato a spese, e nonostante l’enormità delle risorse impiegate non è arrivato a rifinire alloggi e spogliatoi, e chissà se è vero che a capo dei letti c’è per la devozione degli atleti un suo ritratto. Lo scià di Persia fece a Persepolis qualcosa del genere, i grandi della terra non disertarono, e non gli portò fortuna, a lui e a loro. Il capolavoro di Putin sta per ora, e il cielo salvi tutti da sciagure peggiori, nell’aver sollevato non uno, ma tre macigni che rischiano di ricadergli sui piedi. Ha voluto trionfare nel Caucaso domato, come il cacciatore che si fa ritrarre con lo stivale sopra la fiera abbattuta: ma il Caucaso non è domato, e sia pure coi mezzi più odiosi e disperati degli attacchi suicidi e delle stragi di innocenti rivendica di tenere nella paura i padroni dei giochi e anche i cittadini e i partecipanti. Ha fatto di una regione violentata il teatro della propria megalomania, chiamandovi a esibirsi una truppa di cosacchi pittoreschi, risuscitando così la memoria dello sterminio perpetrato contro il popolo di circassi che abitava quella terra, i cui superstiti denunciano dalla diaspora l’oltraggio. Ha inaugurato i Giochi e lo spirito di ripudio di ogni discriminazione che per statuto li caratterizza con l’esibizione di una minaccia omofoba. I ragazzi del mondo, quei ragazzi che l’autorità neozarista e neostalinista (le due cose vanno bene assieme) vuole proteggere dall’assalto delle cose contronatura, hanno una inaspettata occasione per interrogarsi su vere e proprie rivelazioni: la relazione fra la Russia e il Caucaso, le guerre di Cecenia, l’esistenza di un popolo dal nome favoloso di Circasso, l’infamia contronatura della denigrazione e della persecuzione del modo che le persone trovano o scelgono per amarsi.
Proprio a Sochi, “il luogo fra terra e mare”, il segretario delle Nazioni Unite alla vigilia dell’apertura dei Giochi invernali proclama che “dobbiamo alzare la nostra voce contro gli attacchi alle lesbiche, ai gay, ai bisessuali o ai transgender”. In una larghissima parte del mondo i ragazzi non sanno, o sanno confusamente, che cosa voglia dire “lesbiche, gay, bisessuali, transgender…”. In una larga parte del mondo quelle naturalissime (o, anche, “culturalissime”) inclinazioni vengono umiliate e offese e perseguitate fino alla morte. Gli stessi atleti che arrivano a Sochi da ogni parte del mondo sono chiamati a interrogarsi e rispondere sull’amore e l’odio, e l’amore della libertà e la libertà dell’amore. Mi viene in mente, per un’esperienza personale, quanto possa essere stridente o viceversa prezioso l’incrocio nell’ottusità trionfalista di Putin di un machismo omofobo con il virilismo guerresco dispiegato contro i popoli renitenti del Caucaso, nei quali d’altra parte un virilismo combattente convive molto spesso con un’analoga omofobia. In una delle lunghissime notti di guerra cecene, vuote di luce e piene di bombe, chiesi al mio ospite eroico come venisse considerata fra loro l’omosessualità: comunicavamo in lingue arrangiate e rudimentali, sicché potè mostrare prima di non capire, poi ripiegò sulla negazione recisa e vergognoprie
sa dell’esistenza di qualcosa di simile fra i ceceni. Il giorno dopo, sempre a testa bassa, ammise che in effetti, durante il servizio militare, aveva sentito dal suo ufficiale russo che cose del genere avvenivano: ma, precisò, solo fra russi. La pace e il rispetto delle diversità, il rifiuto delle discriminazioni — i caucasici sono “i negri” dei russi — hanno molto a che fare. La spavalderia e la rozzezza di Putin gli hanno meritato la diserzione dei capi di stato di buona parte dei paesi democratici dall’apertura dei giochi. Il governo italiano ha deciso diversamente, e Enrico Letta ne ha offerto una — Roma 2024 — o due ragioni. Ammesso che le ragioni ci siano, non sono abbastanza da diventare la ragione: la partecipazione politica italiana è un errore. C’è da osservare un’altra coincidenza, fra l’esortazione di Ban Kimoon a denunciare in tutto il mondo lo scandalo della stigmatizzazione e persecuzione delle inclinazioni sessuali, e la raccomandazione contenuta nel rapporto di Ginevra sui diritti dell’infanzia e la chiesa cattolica, in cui si tratta anche dell’insegnamento morale riguardante l’aborto, la famiglia, l’omosessualità. La risentita difesa dei propri principii e delle proti
convinzioni da parte della Chiesa non dovrebbe impedirle di ostacolare con ogni forza le persecuzioni che un’interpretazione intollerante di principii, giudizi e pregiudizi rovescia sulle persone. Confine sul quale si misura in gran parte il pontificato di Francesco.


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