L’ultimo genocidio

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BANGUI. Un corpo giace sul ciglio della strada, smembrato e mutilato. «Questa mano ha ucciso la mia gente», inveisce un ragazzo brandendo un machete e impugnando l’arto mozzato. «È la legge del taglione. I musulmani ci hanno massacrati, ora tocca a loro». Un nugolo di teste approva. Poco più in là una donna tenta di aggrapparsi a un camion in partenza per il Ciad, carico di uomini schiacciati da pacchi, materassi, taniche d’acqua, vecchie biciclette. Ognuno cerca di portare con sé quel che può, quel che resta di una vita. Lasciano un Paese, la Repubblica Centrafricana, dove loro, i musulmani, sono diventati nemici. Oltre mille i morti solo a dicembre. Un milione gli sfollati. A vent’anni dalle stragi che decimarono il Ruanda, un nuovo conflitto settario insanguina il cuore dell’Africa. L’Onu parla di genocidio.
Nessun musulmano resta in questo quartiere defunto al di là di Pk12, o “Punto chilometrico 12”, l’incrocio tra le strade per il Ciad e il Camerun che serra l’uscita Nord della capitale Bangui.

Costeggiato da cordoni di filo spinato, delimitato da due posti di blocco e sorvegliato su tutti i fronti dalla gendarmeria nazionale e dagli uomini dell’operazione francese Sangaris, questo crocevia a 12 chilometri dal centro della città, il “Punto 0”, è uno degli epicentri di tensione più incandescenti del Paese. Della “Boutique Andele” non restano che le pareti in mattoni e le travi del tetto. I cristiani hanno portato via tutto quello che potevano: mercanzia, banchi di legno, la copertura in lamiera. La moschea non è che uno scheletro in muratura. Il minareto si erge muto e orfano di una comunità che non c’è più. Qui i musulmani vivevano in pace con la maggioranza cristiana. Ora sono considerati complici dei soprusi commessi dai ribelli Seleka e sono bersaglio degli anti-balaka, “anti-machete” nella lingua locale sango, milizie cristiane e animiste che cercano vendetta.
Sadou, un’anziana di etnia Peul, gli occhi incorniciati dalle rughe, unica sopravvissuta di una famiglia di sei, attende che il prossimo convoglio la porti via da qui. Discosta con delicatezza il velo blu dal viso e mostra una cicatrice raggrinzita sullo scalpo rasato. «I cristiani hanno fatto irruzione in casa mia. Mi hanno colpito col machete e sono svenuta. Quando mi sono svegliata, mio marito e i miei figli giacevano accanto a me senza vita. Non mi resta più nulla. Ho paura». Paura di restare in un Paese dove non è più al sicuro, paura di andare in un Paese che non conosce.
Nonostante l’avvicendarsi di golpe e guerre civili sin dall’indipendenza dalla Francia nel 1960, la Repubblica Centrafricana non aveva mai sperimentato una simile spirale di violenze settarie. La guerra di religione è esplosa quando i Seleka a marzo hanno rovesciato l’ex presidente François Bozizé e insediato Michel Djotodia, primo musulmano a guidare il Paese. Seleka in sango significa “alleanza”: è una coalizione di ribelli musulmani, perlopiù mercenari provenienti dal Ciad e dal Sudan, che per dieci mesi hanno regnato razziando e dando alle fiamme centinaia di villaggi, torturando, stuprando le donne e uccidendo gli uomini della popolazione a maggioranza cristiana. A casa di Ngaro Hermine, 19 anni, sono arrivati il 23 dicembre. Le hanno assassinato il marito e saccheggiato casa. È arrivata al campo di M’Poko, sorto accanto all’aeroporto, insieme ai tre figli, il più grande di 5 anni. «Sono fuggita senza nulla. Non ho un lavoro, non ho soldi, non so dove trovare il cibo per sfamare i miei bambini. Si ammalano sempre», dice in attesa di un consulto nell’ospedale da campo allestito da Medici Senza Frontiere.
In oltre 100mila hanno trovato riparo qui, rassicurati dalla presenza dei militari francesi. Sono cristiani, fuggiti alla furia omicida dei Seleka. Vivono ai bordi della pista tra il rombo assordante dei motori degli aerei e nella nebbia delle loro braci accese. Alcuni dormono sotto un hangar abbandonato o sotto l’ala di vecchi velivoli dismessi, altri hanno montato tende o costruito baracche. La maggior parte non ha nulla che li protegga dalla pioggia o dal sole cocente, solo una stuoia a isolarli dal terreno. Ci sono quasi 70 campi a Bangui e 510mila persone troppo spaventate per tornare a casa. La metà degli abitanti della capitale. In tutto il Paese gli sfollati sono un quarto della popolazione. Jenevienne si trova a M’Poko dal 5 dicembre. I Seleka le hanno bruciato casa, saccheggiato e distrutto l’ospedale dove lavorava. Sono queste uccisioni e saccheggi ad avere scatenato le rappresaglie degli anti-balaka. Ora ogni parte ha i suoi morti e li vuole vendicare.
I francesi sono intervenuti a dicembre mentre il Paese sprofondava in un bagno di sangue con 1.000 morti in pochi giorni solo a Bangui. Un mese dopo Djotodja è stato costretto a dimettersi dalle potenze regionali riunite a N’Djamena ed è fuggito in esilio in Benin. I Seleka hanno iniziato a fuggire lasciando i civili musulmani a scontare per i loro crimini. «Hanno ucciso la mia gente, massacrato mia madre, dato alle fiamme mio fratello. Non ho avuto altra scelta che combattere», dice Emotion Brice Namsio. Si presenta come il «portavoce degli anti-balaka»: 33 anni, schiena eretta, una maglietta bianca sotto la quale s’intravedono i “gris gris”, i feticci che le milizie credono li rendano immuni dai proiettili. Lo incontriamo a Boy-Rabe, un quartiere sotto la collina che sovrasta Bangui dove lo salutano tutti con deferenza. «Non uccidiamo i musulmani, uccidiamo i Seleka. Ora che stanno andando via, il futuro non può che essere la riconciliazione».
Difficile credergli all’indomani degli ennesimi linciaggi, talora sotto gli occhi dei francesi riluttanti a intervenire per timore di essere accusati di parzialità. Un corpo è stato decapitato, un altro è stato sventrato. A un altro ancora sono stati tagliati gli arti. Armati di pistole artigianali e coltelli, gli anti-balaka devastano intere comunità come quella di PK12. Molti sono semplicemente residenti locali che non rispondono ad alcuna gerarchia. I musulmani lasciano il Paese. Se non lo fanno, vengono uccisi. Una guerra di religione, ma non solo. A essere perseguitati sono ricchi commercianti invidiati dalla povera maggioranza cristiana o allevatori nomadi in conflitto da generazioni con gli agricoltori cristiani. Un risentimento antico, quello tra cristiani sedentari e musulmani nomadi, che ha intensificato le violenze.
«Per le strade senti parlare di “centrafricani” e di “musulmani” come di due diverse comunità. Chi verrà qui tra un anno non saprà che c’erano musulmani che vivevano a Bangui», commenta Joanne Mariner che, insieme a Donatella Rovera, sta documentando gli abusi nel Paese per Amnesty International. «Fuggono, ovunque riescano. Vogliono solo andare via». Il rischio è l’esodo, la pulizia etnicoreligiosa. Neppure la presenza di 5.500 peacekeeper africani della Misca oltre ai 1.600 militari francesi, né l’elezione della prima presidente donna, Catherine Samba Panza, soprannominata “Madre Coraggio”, o la formazione di un nuovo governo guidato dal premier André Nzapayeké stanno rallentando lo sprofondamento del Centrafrica verso l’abisso.
Il Paese è fermo da marzo. La sera vige il coprifuoco. Le amministrazioni non funzionano più, banche e stazioni di rifornimento aprono solo un paio d’ore la mattina, le scuole sono chiuse. Sulle panche all’ombra del Liceo Boganda, non siedono studenti, ma i soldati della Misca. Secondo Lea Koyassoum Doumta, vicepresidente del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), è proprio dalla ricostruzione che può partire la riconciliazione: «Oggi la popolazione dipende dagli aiuti internazionali. Dobbiamo riportare la gente al lavoro, ridarle dignità. Tra un anno si terranno le nuove elezioni. Bisogna ricostruire le infrastrutture. La popolazione sarà impegnata a lavorare. Se ci sarà lavoro, se ci sarà cibo, le violenze cesseranno». Per Donatella Rovera, «è oramai troppo tardi». La cosa più triste, aggiunge, «è che la situazione era interamente prevedibile dall’inizio e che, soprattutto nelle aree rurali del Paese, sarebbe bastata una minima azione delle forze internazionali per fermare la barbarie». È sera e, nonostante l’avvicinarsi del coprifuoco, spari ed esplosioni risuonano ancora nell’umidità soffocante. Provengono da via Koudougou che attraversa il quartiere misto Miskine per poi arrivare a Pk5, l’ultimo ghetto musulmano. La statua di una colomba bianca domina Place de la Riconciliation, ma il suo messaggio resta inascoltato.


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