Il bagno di sangue in Siria entra nel quarto anno

Il bagno di sangue in Siria entra nel quarto anno

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I primi reparti mili­tari gover­na­tivi sono entrati a Yabroud, l’ultima roc­ca­forte dei ribelli nella pro­vin­cia set­ten­trio­nale di Dama­sco, a breve distanza alla fron­tiera con il Libano. «L’esercito avanza nelle vie prin­ci­pali della città. I ribelli fug­gono a Ran­kous», rife­ri­vano ieri testi­moni all’agenzia fran­cese Afp. La con­qui­sta di Yabroud è un suc­cesso impor­tante per Dama­sco per­chè, almeno sulla carta, per­mette alle forze gover­na­tive — aiu­tate da com­bat­tenti di Hez­bol­lah, ira­cheni e ira­niani — di inter­rom­pere il flusso di aiuti e di mili­ziani sun­niti che dal Libano entrano in Siria per unirsi, in pre­va­lenza, alle for­ma­zioni isla­mi­ste, e di con­so­li­dare il con­trollo della regione di Qala­moun, tra la capi­tale e la costa mediterranea.
Tut­ta­via que­ste vit­to­rie mili­tari, otte­nute a caro prezzo, in ter­mini di vite umane (anche civili) e di distru­zioni, dif­fi­cil­mente apri­ranno la strada alla ricon­qui­sta delle ampie por­zioni di ter­ri­to­rio che il pre­si­dente Bashar Assad non con­trolla più da tempo. La guerra civile siriana è un immenso bagno di san­gue dal quale nes­suna delle parti coin­volte, siriane o stra­niere, può pen­sare di uscire vin­ci­trice. E’ una guerra di posi­zione che ha por­tato alla fran­tu­ma­zione del Paese. Una guerra che, dopo il fal­li­mento della con­fe­renza di “Gine­vra II”, non ha alcuna pro­spet­tiva di solu­zione poli­tica. Per la sem­plice ragione che la via d’uscita nego­ziata non la vogliono gli alleati regio­nali e inter­na­zio­nali dell’una e dell’altra parte.
Comin­ciata il 15 marzo del 2011 nella città meri­dio­nale di Deraa, sull’onda delle rivolte in Tuni­sia ed Egitto, in rispo­sta alla bru­tale repres­sione da parte dei ser­vizi di sicu­rezza di grup­petti di ragaz­zini che ave­vano scritto su un paio di muri «Il popolo vuole la caduta del regime» e allar­ga­tasi a Dama­sco, Homs, Hama e altre città, la pro­te­sta siriana nei mesi suc­ces­sivi, da spon­ta­nea e in nome di diritti e libertà, si è tra­sfor­mata in quel con­flitto armato senza mise­ri­cor­dia per nes­suno al quale assi­stiamo oggi. Ciò è avve­nuto per la repres­sione por­tata avanti dal regime e, più di tutto, per l’intervento di Paesi arabi del Golfo. Prima il Qatar, pronto a ripe­tere quanto aveva fatto in Libia con­tro Muam­mar Ghed­dafi e a por­tare al potere in Siria gli alleati Fra­telli Musul­mani. Poi l’Arabia sau­dita decisa ad abbat­tere gli ala­witi Assad per spez­zare la “con­ti­nuità ter­ri­to­riale” della cosid­detta “mezza luna sciita” (Iran, Iraq, Siria e Libano del sud nelle mani di Hez­bol­lah) e per ripor­tare Dama­sco sotto il con­trollo reli­gioso sun­nita dopo decenni di baa­thi­smo laico e (psuedo) socialista.Dopo tre anni di com­bat­ti­menti, di cri­mini com­messi dal regime, di atro­cità com­piute da ribelli, jiha­di­sti e qae­di­sti (migliaia dei quali venuti da altri Paesi per la guerra santa con­tro “lo sciita” Bashar Assad), il bilan­cio è quello di una Siria in ginoc­chio: oltre 140mila morti, 2,5 milioni di pro­fu­ghi in Tur­chia, Libano e Gior­da­nia, almeno altre sei milioni di per­sone sfol­late, città ridotte in mace­rie, eco­no­mia ferma.
L’opposizione siriana, rac­chiusa in buona parte nella Coa­li­zione Nazio­nale – gui­data da un uomo di Riyadh, Ahmed Jarba — ha otte­nuto l’appoggio dell’Occidente e di vari Paesi arabi ma non conta nulla sul ter­reno. Il “governo dell’opposizione” esi­ste solo sulla carta e, in ogni caso, non è ascol­tato da alcuna delle for­ma­zioni ribelli ad ecce­zione dell’Esercito libero siriano (Els) che, però, perde con­ti­nua­mente pezzi e cre­di­bi­lità. Il “Fronte isla­mico” (nato alla fine della scorsa estate) che include gran parte dei com­bat­tenti anti-Assad e rac­chiude le for­ma­zioni jiha­di­ste siriane, risponde solo al suo spon­sor: l’Arabia saudita.
Una situa­zione di estrema com­ples­sità che si tra­duce sul campo in una Siria fatta a pezzi. Il governo cen­trale ha il con­trollo di Dama­sco, il cen­tro del Paese, le città lungo la costa, di buona parte del sud e della mag­gio­ranza della popo­la­zione. Almeno il 60% del ter­ri­to­rio però è nelle mani di ribelli e jiha­di­sti che molto spesso si fanno la guerra tra di loro. Nelle pro­vince set­ten­trio­nali di Aleppo e Idlib, l’Els deve veder­sela con lo “Stato Isla­mico in Iraq e nel Levante” che con­trolla l’area nord-occidentale, la pro­vin­cia di Raqqa e varie comu­nità nella zona della seconda città del paese, Aleppo (divisa a metà tra governo e oppo­si­zione). Un’altra for­ma­zione jiha­di­sta il “Fronte al-Nusra”, che al Qaeda ha pro­cla­mato suo ramo siriano, con­trolla parte del ter­ri­to­rio ad Est e alcune aree petro­li­fere. Il ter­ri­to­rio nord-orientale è nelle mani dei curdi che devono guar­darsi dalle for­ma­zioni isla­mi­ste. Di fronte a que­sto qua­dro di ecce­zio­nale gra­vità uma­ni­ta­ria, poli­tica e mili­tare, è meglio non farsi troppe illu­sioni: la guerra civile siriana potrebbe andare avanti per altri 10–15 anni e incen­diare, come in parte sta già avve­nendo, i vicini Libano e Iraq.


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