I fondi Ue che l’Italia non sa spendere

I fondi Ue che l’Italia non sa spendere

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Andrea Del Monaco *, il manifesto

 Spen­dere 114 miliardi di fondi euro­pei in un piano per lo svi­luppo e il lavoro: que­sto è l’unico Jobs act pos­si­bile per Renzi. Il fal­li­mento dei governi Letta, Monti e Ber­lu­sconi, è nei numeri: 28,8 miliardi non spesi nel periodo 2007/2013; altri 85 miliardi (del nuovo ciclo 2014–2020) che non pos­siamo usare per­ché l’Italia non ha ancora con­cluso la pro­gram­ma­zione con Bru­xel­les. L’inadeguatezza della nostra classe diri­gente è tutta qui: tutti invo­cano la cre­scita, eppure l’Italia non inve­ste le risorse comu­ni­ta­rie, l’unico stru­mento con­tro la crisi.

Nei pros­simi mesi domande cru­ciali tro­ve­ranno una rispo­sta: i fondi euro­pei saranno but­tati nel cuneo fiscale (Roberto Perotti gio­vedì 27 feb­braio sul Sole 24ore) e tolti al Sud? I Comuni (gui­dati da Fas­sino, Marino, Nar­della e De Magi­stris) gesti­ranno i fondi Ue o vin­cerà l’opposizione delle regioni gui­date da Errani? La can­cel­liera Mer­kel ci com­mis­sa­rierà anche sulla spesa comu­ni­ta­ria? Camusso, Ange­letti, Bonanni e Squinzi avranno una loro pro­po­sta per creare lavoro e svi­luppo in Italia?

Renzi, dopo aver defi­nito allu­ci­nante il tasso di disoc­cu­pa­zione, dovrebbe rot­ta­mare la classe poli­tica e i diri­genti pub­blici che hanno speso poco e male i fondi euro­pei; un governo ade­guato use­rebbe i fondi Ue in un piano che rilanci il nostro sistema pro­dut­tivo e crei vero lavoro.

114 mld: risorse a disposizione

Nei pros­simi due anni si sovrap­por­ranno due canali finan­ziari. Primo: il resi­duo della pro­gram­ma­zione 2007–2013: 28,89 miliardi di euro non spesi al 31 dicem­bre 2013 (secondo i dati pub­bli­cati sui siti dei mini­steri della Coe­sione Ter­ri­to­riale e delle Poli­ti­che Agri­cole) così sud­di­visi: i rima­nenti 22,89 miliardi dei pro­grammi cofi­nan­ziati dal Fesr (Fondo Euro­peo di Svi­luppo Regio­nale) e dal Fse (Fondo Sociale Euro­peo); i rima­nenti 6 miliardi di euro dei piani cofi­nan­ziati dal Feasr (Fondo Euro­peo Agri­colo di Svi­luppo Rurale). Nel 2007–2013 l’Italia ha speso solo 37 miliardi dei 66 miliardi di euro a dispo­si­zione: tale inca­pa­cità dei pre­de­ces­sori dà a Renzi un’opportunità; poi­ché Bru­xel­les (gra­zie alla deroga del mec­ca­ni­smo N+2) con­cede altri due anni per spen­dere, il governo può dimo­strare di essere capace e ade­guato alla crisi, può usare tutti i 28,89 miliardi di euro entro dicem­bre 2015 ed evi­tare il disim­pe­gno auto­ma­tico del cofi­nan­zia­mento europeo.

Secondo: gli 85 miliardi del periodo 2014–2020: circa 64,5 miliardi di euro dei pro­grammi cofi­nan­ziati da Fesr e Fse; circa 20,8 miliardi dei pro­grammi cofi­nan­ziati dal Feasr.

Il flop degli incen­tivi automatici

Il pro­blema prin­ci­pale della pro­gram­ma­zione dei fondi euro­pei è l’assenza di un pro­getto paese. Pur­troppo la poli­tica indu­striale si è ridotta agli incen­tivi auto­ma­tici alle aziende per l’occupazione, per il tra­sfe­ri­mento tec­no­lo­gico e per la ricerca: nel primo caso, finito l’incentivo, i nuovi occu­pati sono stati licen­ziati, nel secondo, le imprese hanno com­prato beni stru­men­tali pro­dotti all’estero (dando com­messe a imprese stra­niere e quindi lavoro a lavo­ra­tori stra­nieri con risorse ita­liane), nel terzo le imprese spesso hanno assunto con un con­tratto (poco costoso) da ricer­ca­tore un lavo­ra­tore che ricer­ca­tore non era. Chi ha cer­cato di cam­biare que­sto para­digma si è tro­vato di fronte un muro.

Durante l’esame in Senato della Legge Finan­zia­ria 2008, Ser­gio Fer­rari e io scri­vemmo un emen­da­mento (poi pre­sen­tato dai sena­tori Salvi e Russo Spena) che can­cel­lava gli incen­tivi auto­ma­tici sulla ricerca per il Sud e isti­tuiva un pro­gramma nazio­nale di ricerca e rein­du­stria­liz­za­zione per sele­zio­nare le filiere pro­dut­tive gene­ra­trici di inno­va­zione e dispo­ni­bili a tra­sfe­rire sul piano indu­striale i risul­tati della ricerca finan­ziata. L’emendamento non passò poi­ché in com­mis­sione bilan­cio pre­valse l’idea secondo cui le imprese per assu­mere hanno biso­gno di liqui­dità (cre­dito d’imposta e sta­ges pagati dallo stato): un auto­re­vole espo­nente di Con­fin­du­stria, di fronte all’obiezione sull’inutilità degli incen­tivi auto­ma­tici, mi rispose: «Lei ha ragione, ma io rap­pre­sento tutta le aziende, quindi se non soste­nessi gli incen­tivi per tutte le filiere quelle escluse pro­te­ste­reb­bero»; quindi nes­sun vin­colo d’innovazione e incen­tivi per tutti, altri­menti le filiere pro­dut­tive non meri­te­voli sareb­bero insorte. Oggi Con­fin­du­stria sem­bra aver cam­biato idea: il pre­si­dente Squinzi pre­fe­ri­rebbe can­cel­lare le inu­tili age­vo­la­zioni per le aziende in cam­bio del taglio dell’Irap. Il governo Letta non l’ha ascol­tato e ha varato misure poco effi­caci quali l’aggiornamento della Legge Saba­tini e il cre­dito d’imposta sull’occupazione per gli under 29. Giu­sta­mente Squinzi ha ricor­dato che un’impresa assume lavo­ra­tori se esi­ste la domanda dei beni che pro­duce; per assu­mere nuovi lavo­ra­tori è neces­sa­rio prima lo svi­luppo: e infatti alcune aziende ita­liane hanno delo­ca­liz­zato in Austria e in Ger­ma­nia dove il costo del lavoro è pari a quello ita­liano ma il sistema pro­dut­tivo è solido.

Il lavoro si crea con le poli­ti­che indu­striali, non con gli sgravi fiscali. Non solo: negli ultimi trenta anni con un uso impro­prio del ter­mine inno­va­zione è stato spac­ciato all’opinione pub­blica l’incentivo alle aziende per il tra­sfe­ri­mento tec­no­lo­gico come inno­va­zione del sistema pro­dut­tivo. Come se la sosti­tu­zione della rete infor­ma­tica azien­dale, gra­zie al con­tri­buto a fondo per­duto, fosse inno­va­zione tec­no­lo­gica. Le mini­stre Ste­fa­nia Gian­nini e Fede­rica Guidi cam­bie­ranno que­sto brutto para­digma o (come i loro pre­de­ces­sori) con­ti­nue­ranno a but­tare i fondi euro­pei negli incen­tivi automatici?

L’eccezione tede­sca al rigore

Oggi l’Italia inve­ste poco anche per­ché i tede­schi chie­dono il rispetto delle regole del rigore con­ta­bile; il pros­simo 17 marzo, quando incon­trerà la can­cel­liera Mer­kel, Renzi dovrebbe ricor­darle che 11 anni fa anche i tede­schi non le rispet­ta­rono. Infatti nel 2003 la Com­mis­sione Euro­pea, pre­sie­duta da Romano Prodi, con il pro­fes­sor Monti alla con­cor­renza, denun­ciò Fran­cia e Ger­ma­nia poi­ché ave­vano sfo­rato i limiti del defi­cit di bilan­cio (3% sul Pil) impo­sti dal Patto di Sta­bi­lità. Ma alla Com­mis­sione, che difen­deva le regole sta­bi­lite, si oppo­sero l’Eurogruppo ed Eco­fin che fecero sospen­dere la pro­ce­dura per defi­cit ecces­sivo nei con­fronti di Parigi e Ber­lino. Allora furono discri­mi­nati gli Stati mem­bri vir­tuosi, che ave­vano rispet­tato il Patto: Austria, Fin­lan­dia, Olanda, Spa­gna. Poi­ché gra­zie al com­plice soste­gno degli ita­liani (e all’appoggio esterno degli inglesi), nel 2003 i tede­schi e i fran­cesi otten­nero l’intervento dei mini­stri delle Finanze e l’esenzione dalle san­zioni pre­vi­ste, oggi l’Italia potrebbe chie­dere la stessa deroga e varare inve­sti­menti per lo sviluppo.

A tale riguardo occorre smen­tire il luogo comune secondo il quale noi ita­liani otte­niamo favori e la ricca Ber­lino ci man­tiene: è sem­pli­ce­mente falso. Dopo Ger­ma­nia e Fran­cia, l’Italia è il «terzo con­tri­buente netto» (nel senso che dà a Bru­xel­les più di quello che riceve), prima, sot­to­li­neo prima, di Gran Bre­ta­gna, Olanda, Bel­gio e della rigo­rosa Sve­zia. La Corte dei Conti (pagine 25–32 della Rela­zione del 30 dicem­bre 2013 della sua sezione di con­trollo per gli affari comu­ni­tari e inter­na­zio­nali) stima il con­tri­buto netto dell’Italia al bilan­cio dell’Unione Euro­pea per il 2012 pari a 5,7 miliardi di euro: infatti nel 2012 abbiamo ver­sato 16,4 miliardi di euro e ne abbiamo rice­vuti appena 10,7. Tra il 2006 e il 2012 l’Italia ha avuto nel com­plesso un saldo nega­tivo tra i con­tri­buti ver­sati all’Ue e le risorse rice­vute pari a 41,2 miliardi di euro. Para­dos­sal­mente la can­cel­liera tede­sca Mer­kel, appena rie­letta a set­tem­bre, sot­to­li­neò che i fondi euro­pei per lo svi­luppo avreb­bero dovuto essere spesi meglio e che il primo paese pro­ble­ma­tico fosse l’Italia; non solo, per tale ragione Mer­kel ha anche ipo­tiz­zato una task force a Bru­xel­les sui fondi euro­pei con poteri sosti­tu­tivi nei con­fronti degli stati mem­bri inef­fi­cienti. In realtà i tede­schi sono ben con­tenti: poi­ché spen­diamo poco e male i fondi euro­pei per lo svi­luppo, rega­liamo 41,2 miliardi in sette anni a Bru­xel­les e non fac­ciamo con­cor­renza alle imprese tedesche.

*esperto fondi strut­tu­rali euro­pei, già con­su­lente II governo Prodi


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