L’Occidente e l’idea di Nemico
MAN mano che viene disseppellito il linguaggio della guerra fredda, per giudicare l’Ucraina minacciata da Mosca e la possibile secessione della Crimea, anche la contrapposizione Est Ovest torna in vita.
Sembrava sotterrata, quando l’Urss si sfaldò. Per qualche anno si parlò addirittura di un nuovo ordine mondiale, comprendente la Russia. Questa parentesi si chiude e la vecchia domanda si ripropone: cos’è l’Occidente e dov’è il suo confine? È costituito, come ieri, da un compatto blocco atlantico, incarnazione di una preminente moralità internazionale?
Per tentare qualche risposta è utile ricordare che l’Occidente ha una storia lunga ma nella guerra fredda fu essenzialmente definito dal nemico: l’Urss. Alla formula di Descartes (penso, dunque sono) si sostituì un motto meno cogitante, e soprattutto meno universalista: Ho un nemico, dunque sono.
Fu forse necessario, ma resta un motto insidioso. Oggi è solo insidioso, perché la Russia è governata da un autocrate con nostalgie imperiali (per Putin «la fine dell’Urss fu una catastrofe») ma non dispone di un’ideologia che seduca tanti popoli. Perso il credo comunista, in un mondo dove ambedue le parti lanciano guerre di aggressione, il nemico è capace di nuocere, non più di definirci.
Mosca ha oggi mire conquistatrici come la Russia che precedette la rivoluzione, e come tale andrebbe trattata: calibrando gli interessi, mettendola in guardia contro annessioni. Non a caso queste cose le dice Kissinger, paladino dell’ottocentesco equilibrio di potenze (balance of power): la Russia non deve tramutare Kiev in satellite; l’Ucraina «non deve diventare l’avamposto d’una parte contro l’altra, bensì fare da ponte tra le due»; e l’Occidente deve capire che «per la Russia, l’Ucraina non potrà mai essere un paese straniero. Il criterio non è l’assoluta soddisfazione (di tutti, ndr) ma un’insoddisfazione bilanciata » (Repubblica, 7 marzo). Così avrebbe potuto parlare Metternich, artefice della Santa Alleanza fra il 1815 e il 1848. E di Metternich Kissinger è grande stimatore. Naturalmente possiamo rifabbricare il nemico esistenziale, resuscitarlo quale era. Putin è consigliato da ideologi fautori di un’Eurasiaostile alle decadenze occidentali. Ma chi lo seguirà, se non costretto?
Farsi definire dal nemico ha avuto lati positivi non negabili. L’esistenza di un avversario dotato di messianiche promesse sociali ha spinto l’Europa, in primis, a competere proprio sulla promessa, e a dire: saremo
noi i difensori di quell’uguaglianza e giustizia sociale che voi fingete; saremo noi la democrazia, la tolleranza, il diritto. Siamo noi a non lasciar soli i poveri e i derelitti.
Così fu, nei decenni del Welfare europeo: decenni in cui la disuguaglianza dei redditi diminuì sensibilmente. Esaurita la guerra fredda, si ebbe però il cambio di guardia: i neo-liberisti si sentirono vincitori planetari, e Tienanmen non li turbò ma anzi li convinse che il capitalismo cinese, grazie ai massacri, si radicava senza scosse.
L’antagonismo Est Ovest – se unito all’affermazione di primati morali – comporta per forza la ricomparsa dell’ideologia. È una ricomparsa artificiosa, ma ci sono artifici che hanno eccezionale potenza e offrono allettanti comodità: errori e colpe sbiadiscono; solo la Causa conta. Precorritrici furono le «guerre di civiltà » contro Al Qaeda, che hanno trasformato i terroristi in politici, con statuto di belligeranti. Così il Molosso russo rialzatosi. La sua pericolosità fa dimenticare la presenza nel governo ucraino di ministri neonazisti, e la legge che cancella il russo come seconda lingua in zone infuocate come l’Est e la Crimea.
Dalle insidie si esce con l’arte del distinguo: non è uniforme l’occidente, anche se l’Europa latita. Nel dopoguerra «far blocco » fu imperativo, visto che c’era accordo sull’essenza: l’imperio della legge, la democrazia, i diritti della persona. Nel frattempo le cose sono cambiate. L’Unione si sta disunendo, e anch’essa cade nell’equilibrio di potenze.
Ma la sua storia resta diversa, con effetti sull’idea stessa di occidente.
Da quando decise di unirsi, l’Europa diede a quest’idea connotati aggiuntivi e cruciali, che nella cultura Usa mancano. Lo Stato nazione cessava di essere un idolo, dopo i disastri che aveva provocato. Seguì un’autentica conversione politica, nata dalla conoscenza di sé: in particolare dell’hybris, della dismisura, che aveva marchiato gli idiotismi naziona-listi, questi succedanei delle guerre di religione. La presa di coscienza indusse i governi europei a riconoscere sopra di sé un’autorità superiore: una legge preminente, che ponesse limiti allo strapotere sovrano degli Stati. Non solo; nella mente dei fondatori, l’autorità europea aspira a essere tappa di una pacificazione mondiale, e riconosce la preminenza, sull’Europa stessa, di un diritto internazionale e di istituzioni che lo applichino. L’identificazione della filosofia europea con quella di Kant (federalismo di liberi Stati, costituzione civile mondiale) non è casuale ed è appropriata. A differenza dell’America, l’Europa unificata (anche se incompiuta) non si è data mai come compito quello coltivato più volte dagli Usa: un «destino manifesto ». Il concetto nacque nella prima parte dell‘800: fu all’origine del soffocamento dei nativi americani e dell’annessione di gran parte delle terre occidentali. Alla fine dell‘800 giustificò l’espansione oltre il Nord America. Anche la recente esportazione della democrazia nel mondo è brutale Destino Manifesto.
Niente di questo nell’Europa uscita da tante guerre fratricide, ma piuttosto il bisogno di barriere che dominino l’innata protervia dell’uomo. L’Unione è un modello d’integrazione, ma non l’esporta con le armi né si erge a superpotenza. Nasce come Comunità che rompe con le dittature e gli imperialismi: grazie a essa Londra e Parigi hanno abbandonato le colonie (indipendenza dell’India nel ’47, del Marocco e della Tunisia nel ’56, dell’Algeria nel ’62). Pur sapendo che certi confini sono ingiusti, giura di non rimetterli in questione.
Non a caso l’Unione si è rifiutata di menzionare nei trattati le radici cristiane. Perché le radici sono molteplici, e perché l’Europa è un cammino più che un tempio. Disse una volta Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose: «La differenza tra gli uomini e i vegetali è che gli uomini non hanno radici. Hanno piedi».
Nei propositi iniziali, l’Europa è anche estranea al fascino delle ottocentesche Sante Alleanze. La Società delle Nazioni, creata nel 1919 e ossequiosa verso la completa sovranità degli Stati, sfociò in cataclisma. Sia Churchill che Luigi Einaudi la condannarono.
Per salvare l’Ucraina, e schivare al contempo il ritorno dei blocchi (uno monolitico a ovest, uno dispoticamente monolitico a est) non rimane che il modello federale europeo. Le frontiere non si toccano, e le etnie sono tutelate ma non gli irredentismi. Puntare su un’Ucraina occidentalizzata o avamposto Nato (o forzatamente orientalizzata) significa spaccarla, spartirsela. Sia Russia che America tendono alla spartizione, fedeli ai loro «destini manifesti ». L’Europa no, e altra dovrebbe essere la sua via: la difesa dello stato di diritto e delle minoranze, ma in un’ottica cosmopolita, che rassicuri gli autoctoni e i tatari di Crimea e i russi che vivono in Ucraina.
Che l’Ovest sia fatto di dissidi, lo abbiamo riappreso il 6 febbraio: il Fuck Europe-Fottiti Europa,
pronunciato dal viceministro Nuland, è stato un momento di verità. Se l’Europa non vuol più farsi umiliare, che alzi la voce, che auspichi un occidente diversificato, sottolineando quel che appartiene alla nostra storia: che risale a tempi antichi (all’idea dantesca di impero) e che sta prendendo forma da oltre sessant’anni.
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