I filorussi chiedono lo scambio dei prigionieri

I filorussi chiedono lo scambio dei prigionieri

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DONETSK — Igor Strelkov compare davanti ai giornalisti con la divisa degli «uomini verdi», una mimetica senza gradi. Si presenta come il «capo militare» delle «milizie popolari del Donbass», nella città assediata di Sloviansk. Ma più che un militare sembra il boss di un clan criminale specializzato in sequestri. Nel sottoscala di un edificio pubblico sono ancora imprigionati gli otto osservatori della missione internazionale dell’Osce, insieme con la scorta di cinque militari ucraini. Gli ostaggi sarebbero trattenuti «in condizioni inumane», si legge in una nota del ministero degli Interni della capitale. Andrei Kelin, inviato della Russia presso l’Osce, ha detto: «Devono essere liberati al più presto», Mosca «come membro dell’Osce, farà tutti i passi possibili». Il capo dei miliziani Strelkov sibila parole diverse: «Sono spie Nato. Li liberiamo solo in cambio dei nostri militanti arrestati dai fascisti di Kiev».
Ma da dove sbuca quest’altra figura così cupa e minacciosa? I servizi segreti del nuovo governo ucraino non hanno dubbi: è un colonnello delle forze di élite russe, nome operativo «Strilok». Sarebbe lui il coordinatore degli agenti inviati da Mosca per destabilizzare l’Est del Paese. Sull’altro fronte una contromossa che se confermata potrebbe avere conseguenze incontrollabili: Kiev avrebbe addirittura tagliato i rifornimenti di acqua alla Crimea. La notizia, però, arriva dalle nuove autorità della Penisola annessa alla Russia. È stata ripresa da qualche sito di informazione ucraino, ma il governo in serata l’ha smentita.
Negli ultimi giorni l’epicentro della crisi ucraina si è comunque spostato dalla Crimea a Sloviansk. Il colonnello Strelkov (o «Strilok») annuncia che i quattro posti di blocco perduti il 24 aprile sono stati riconquistati. E, dunque, «la resistenza» continua in attesa del referendum per «l’indipendenza del Donbass» fissato per l’11 maggio. Nessun cenno all’accordo di «de-escalation», sottoscritto dalla stessa Russia con Usa, Unione Europea e Ucraina il 17 aprile a Ginevra. I blindati dell’esercito ucraino sono fermi, lontani dalle barricate costruite lungo la strada che taglia da Nord a Sud queste terre di confine. Gli uomini armati si alternano con professionali turni di guardia. Cento chilometri più in basso Donetsk ribolle, ma ancora a fuoco lento. Ieri 7-10 mila persone hanno manifestato e gridato «Ra-ssia, Ra-ssia» sotto gli ippocastani del viale Pushkin, la strada dei negozi di lusso, di qualche ristorante pacchiano (l’insegna «La Mafia» va per la maggiore) e dello struscio che termina davanti al Palazzo del Governatorato, dove aspettano i miliziani in verde, altri pneumatici accatastati, altro filo spinato. Il resto della città prova ad andare avanti come se questi raduni fossero un rito del fine settimana, che però si ripete da due mesi. L’aeroporto funziona, non un checkpoint sulle arterie principali, perfino il campionato di calcio fluisce regolarmente. Ma quanto può durare? La domanda rimbalza tra le diplomazie, con un allarme da codice rosso.
I governi occidentali moltiplicano le pressioni. Ieri il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha telefonato al collega russo Sergej Lavrov. Ennesimo tentativo per fermare il meccanismo delle sanzioni messo in moto dal G7 e spinto dagli Usa. Intanto i dirigenti di Kiev alternano prudenza e proclami da stato di guerra. Così il ministro della Difesa Mykhailo Koval assicura che nei giorni scorsi non ci sono state violazioni territoriali da parte dei russi. Ma chiama alle armi tutti i cittadini e le cittadine abili e arruolabili.
Giuseppe Sarcina


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