India al voto contro la disillusione

India al voto contro la disillusione

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Le ele­zioni nazio­nali in uno Stato dalla stazza di sub­con­ti­nente sono un’impresa logi­stica e orga­niz­za­tiva che in India ha del mira­co­loso. Nove «elec­tion day» spal­mati tra il 7 aprile e il 12 mag­gio per far votare in sicu­rezza oltre 810 milioni di per­sone dall’Himalaya al Tamil Nadu, estre­mità meri­dio­nale di una peni­sola indiana ete­ro­ge­nea per defi­ni­zione; hindu, musul­mani, cri­stiani, sikh, kash­miri, tamil, ben­ga­lesi e popo­la­zioni del blocco tibe­tano, tutti chia­mati ad espri­mere il pro­prio voto davanti a una pul­san­tiera elet­tro­nica, in uno dei 900mila seggi sparsi in ogni angolo del paese.

Le ele­zioni 2014 per la camera bassa del par­la­mento indiano – Lok Sabha – sono già entrate nella Sto­ria dell’esercizio demo­cra­tico mon­diale: mai, prima d’ora, un numero così alto di votanti era stato chia­mato alle urne e il responso finale, pre­vi­sto per il 16 mag­gio, rap­pre­sen­terà la legit­ti­ma­zione demo­cra­tica più ampia dall’Antica Gre­cia ad oggi. L’India del 2014 è un paese disil­luso, sve­glia­tosi bru­sca­mente dai sogni di gran­deur di quell’«Indian Dream» sban­die­rato in quasi vent’anni di trai­ning auto­geno: India come super­po­tenza western friendly, con­tral­tare «buono» dell’inesorabile avan­zata cinese, India come feno­meno di cre­scita eco­no­mica con carat­te­ri­sti­che democratiche.

Ora che le spe­ranze si sono risco­perte illu­sioni, con un’economia che arranca sotto i colpi della crisi eco­no­mica mon­diale (incre­mento del Pil sotto le aspet­ta­tive, nem­meno al 5 per cento) e un governo gui­dato dall’Indian Natio­nal Con­gress (Inc) inca­pace di man­te­nere le pro­messe di cre­scita, la parola d’ordine della cam­pa­gna elet­to­rale è «cam­bia­mento»: serve una scossa per rimet­tersi in car­reg­giata e con­ti­nuare a cre­scere, spe­rare, recla­mare un posto d’onore tra i paesi che con­tano – all’Onu, al Wto – e ridare fiato al mito del secolo indiano. I son­daggi danno per certa la vit­to­ria alle urne di Naren­dra Modi, chief mini­ster del Guja­rat del par­tito nazio­na­li­sta hindu Bha­ra­tiya Janata Party (Bjp), pro­ta­go­ni­sta di un’instancabile cam­pa­gna elet­to­rale e anti­te­tico all’aplomb buro­cra­tico di Man­mo­han Singh, primo mini­stro con­dan­nato alla nomea di burat­tino nelle mani dell’«italiana» Sonia Gan­dhi. Il pas­sato recente di Modi è mac­chiato dalla car­ne­fi­cina dei «Guja­rat Riots» del 2002, quando dopo solo un anno di inse­dia­mento a capo dello stato dell’India occi­den­tale, gli scon­tri inter­co­mu­ni­tari tra hindu e musul­mani lascia­rono sul campo oltre due­mila morti tru­ci­dati, più di 2/3 musul­mani. NaMo, è accu­sato di non aver voluto pla­care l’ira degli estre­mi­sti hindu sca­te­na­tasi dopo che un treno carico di ultra­na­zio­na­li­sti era stato attac­cato da un gruppo di musul­mani nei pressi della sta­zione di Godra: sta­vano tor­nando da Ayo­d­hya, Uttar Pra­desh, dove ave­vano cele­brato il decen­nale della distru­zione della moschea Babri, rasa al suolo a mani nude da una folla di fana­tici orche­strata dal Bjp a latere di una cam­pa­gna elet­to­rale dai toni spic­ca­ta­mente anti musul­mani per cui nes­suno, nell’organigramma del par­tito nazio­na­li­sta, ha pagato davanti alla legge indiana.

Nel giro di dieci anni, da paria della comu­nità inter­na­zio­nale con la fama di geno­cida, Modi ha saputo rein­ven­tarsi cam­pione dello svi­luppo capi­ta­li­sta, pro­muo­vendo il suo «Modello Guja­rat»: acco­gliere inve­sti­menti stra­nieri, spin­gere su uno svi­luppo ful­mi­neo fatto di zone eco­no­mi­che spe­ciali, age­vo­la­zioni fiscali e requi­si­zione dei ter­reni agri­coli per lasciare spa­zio alla moder­nità della fab­brica. Il risul­tato, dati alla mano, è una cre­scita del Pil tra le più alte all’interno dei con­fini indiani (un punto per­cen­tuale in più della media nazio­nale) men­tre gli indi­ca­tori sociali riman­gono sostan­zial­mente fermi al palo: la ric­chezza, sosten­gono i detrat­tori, non è stata ancora in grado di river­sarsi effi­ca­ce­mente sui pro­blemi ata­vici della società indiana come povertà, mal­nu­tri­zione, alfa­be­tiz­za­zione, retri­bu­zione sala­riale minima per lavori non sta­tali, eman­ci­pa­zione fem­mi­nile, dimi­nu­zione della for­bice tra ric­chi e poveri. Ma agli occhi delle folle ado­ranti – dagli yup­pies dell’India urbana agli indi­genti sogna­tori delle cam­pa­gne – il qua­dretto idil­liaco di un’India ricca e pro­spe­rosa basta e avanza per river­sare spe­ranze quan­to­meno avven­tate, con­si­de­rando che il Bjp non ha ancora pub­bli­cato uno strac­cio di docu­mento pro­gram­ma­tico: Modi non vende ricette per la cre­scita, vende sogni. E se la gara si gioca sul campo dell’impalpabile e del piro­tec­nico, la cam­pa­gna elet­to­rale dell’Inc gui­data dal gio­vane Rahul Gan­dhi – figlio di Sonia – sof­fre della zavorra del fal­li­mento al governo, nume­rosi scan­dali di cor­ru­zione e, soprat­tutto, della man­canza di per­so­na­lità di Rahul: il suo pro­gramma, basato su misure di alle­via­mento della povertà e svi­luppo dal basso, nulla può con­tro l’armata pro­pa­gan­di­stica di Modi, onni­pre­sente in tv, social net­work, gior­nali e car­tel­loni pub­bli­ci­tari. Il terzo inco­modo, il distur­ba­tore del duo­po­lio sto­rico Bjp-Inc, sarà il «par­tito dell’uomo comune» Aam Aadmi Party (Aap), una sorta di M5s degli albori. Arvind Kej­ri­wal, lea­der di Aap, punta a rosic­chiare voti nei cen­tri urbani pro­muo­vendo misure per la lotta alla cor­ru­zione – male ende­mico e tra­sver­sale nell’arco par­la­men­tare – con l’obiettivo di diven­tare la terza forza poli­tica nazio­nale. Nes­suno, nelle ultime ele­zioni, è mai riu­scito ad otte­nere la mag­gio­ranza asso­luta e anche quest’anno occor­rerà pie­garsi ad alleanze di comodo coi par­titi regio­nali, in attesa di sco­prire a chi e quanto chie­dere per accor­darsi. L’altro eser­ci­zio, meno poe­tico e ben più deter­mi­nante, della demo­cra­zia più grande del mondo.


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