Juncker “Senza la Ue oggi saremmo in guerra”

Juncker “Senza la Ue oggi saremmo in guerra”

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JEAN- Claude Juncker, primo ministro del Lussemburgo per 19 anni, è stato designato dal Partito popolare europeo come candidato alla presidenza della Commissione. Tra i suoi concorrenti ci sono l’attuale presidente del Parlamento europeo, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, il liberale Guy Verhofstadt o ancora il francese José Bové (per i Verdi) o il greco Alexis Tsipras (per la sinistra radicale). La famiglia politica che realizzerà il miglior risultato alle elezioni europee vedrà il suo candidato (se i capi di stato e di governo rispetteranno questo nuovo principio) designato alla
guida dell’esecutivo dell’Ue.
Perché ritiene di essere un candidato migliore di Guy Verhofstadt o di Martin Schulz per la presidenza della Commissione europea?
«Non credo che sia una corsa a tre, ma a due, e quei due siamo io e Schulz, con tutta l’amicizia che provo per Verhofstadt. Ma prima di parlare di persone, bisogna esaminare le proposte e io credo che i democristiani siano quelli che riescono a conciliare meglio il necessario risanamento delle finanze pubbliche, le politiche di crescita che creano occupazione e il miglioramento della competitività. E credo che riusciremo a dimostrare che i socialisti non hanno il monopolio del sociale».
A Bruxelles c’è stata una manifestazione di lavoratori a favore di un’Europa più sociale… Darete loro ascolto?
«Volete qualcosa di concreto? Eccovelo: io sono favorevole al principio di un salario minimo fissato per legge. E lo stesso per il reddito minimo di cittadinanza. In materia di diritto del lavoro, bisogna riesaminare tutti i cantieri — poco numerosi — in cui l’Ue è riuscita a imporre delle regole minime, e vedere che cosa manca. Ma escludo da questo ambito i nostri sistemi di sicurezza sociale,
troppo disparati per lanciarci in uno sforzo di armonizzazione: sarebbe sovraccaricare la barca europea
».
Lei comprende la disillusione di tanti europei?
«La comprendo. Ma dobbiamo andare più orgogliosi dell’Europa, che è ammirata nel mondo per la pace duratura che è riuscita a portare sul proprio territorio. Quello che succede in Ucraina e in Crimea ci ricorda che la pace e la libertà non sono principi radicati per l’eternità nel nostro continente. Siamo riusciti a integrare
28 mercati e a fondere 18 monete nazionali in un’unica moneta. E questa moneta ci protegge: o pensate forse che senza l’euro saremmo riusciti a resistere alla crisi dei subprime , alla Lehman Brothers o alla crisi ucraina? Saremmo stati trascinati in guerre economiche fratricide. D’altronde, l’Europa si indebolisce: il nostro peso relativo nel mondo si assottiglia, demograficamente ed economicamente. Dobbiamo metterci insieme, integrarci di più, coordinare meglio le nostre politiche economiche e sociali. Se Germania,
Francia, Regno Unito, Italia o Belgio vogliono essere protagonisti influenti della scena internazionale, l’Ue è l’unica via possibile».
Lei è stato membro del Consiglio europeo per 19 anni, presidente dell’Eurogruppo per 9 anni. Rivendica le politiche di austerità?
«Rivendico i risultati, vale a dire il consolidamento delle finanze pubbliche. Siamo riusciti, io per primo, a far capire a tutti i Paesi che espellere la Grecia dalla zona euro era fuori discussione: il rischio di contagio sarebbe stato
elevatissimo. Ma la contropartita era l’impegno a realizzare un risanamento. Non si può produrre crescita duratura sulle rovine di un debito pubblico che si espande costantemente. Nel 2005, tuttavia, ho apportato una riforma importante al Patto di stabilità, che consisteva nel dire che bisogna prendere in considerazione le fasi di recessione. Se non avessi fatto questa riforma nel 2005, la zona euro non sarebbe sopravvissuta alla crisi».
Dunque lei rivendica senza riserve le politiche di rigore?
«Con delle sfumature sui programmi applicati. Mi sono opposto all’idea di ridurre ancora di più il salario sociale minimo in Grecia. Ma gli olandesi, i finlandesi e altri, e poi i ministri di Malta, Cipro, Slovacchia, Slovenia e Portogallo hanno detto che non intendevano presentarsi davanti ai rispettivi parlamenti per chiedere l’approvazione dei programmi di aggiustamento che noi stavamo elaborando quando le tutele sociali nei loro Paesi erano inferiori a quelle greche. Tra chi diceva queste cose c’erano anche dei socialisti. Che non mi si venga a dire oggi che hanno versato lacrime sulla Grecia».
In Francia il governo Valls chiede una nuova dilazione delle scadenze per rispettare l’obbligo di ridurre il deficit al 3 per cento. Lei sarebbe d’accordo?
«L’idea è di non accordare una terza dilazione alla Francia. Parigi deve mettersi nella posizione di rispettare i suoi obblighi in materia di risanamento. E gli altri devono accettare che Parigi presenti il suo programma di stabilità. Ma sono abbastanza ottimista: un paese che vuole contribuire a dirigere l’Europa non può dare l’impressione di esitare quando si tratta di rispettare i propri impegni ». (Traduzione di Fabio Galimberti) © Le Soir



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